Cultura. “Il racconto del pellegrino”, Sant’Ignazio e la riscoperta della libertà

Il miracolo di Sant’Ignazio in un quadro di Rubens (Kunsthistorisches Museum, Vienna)

Sant’Ignazio di Loyola. “Il racconto del pellegrino”, Autobiografia di Sant’Ignazio di Loyola, Adelphi, è uno di quei libri che senza far troppo rumore rimette le cose al loro posto. L’abbandono alla volontà di Dio per Sant’Ignazio è la cosa giusta da farsi e nel farsi è il frutto di una convalescenza forzata, causata da una palla di cannone passatagli tra le gambe, rovinandone una, durante l’assedio di Pamplona. Dunque il riposo, la cura, le letture religiose, l’esame di coscienza e il sopravvenire del disgusto per la vita che faceva.

Ripresi salute e cammino, Ignazio di Loyola si risolve meno che può in decisioni e percorre chilometri e chilometri in fiduciosa attesa: sale in navi per lunghe traversate, lascia tutti i suoi soldi in carità, compare più volte di fronte dall’Inquisizione. Sempre ne sopravvive.

La vita di Gesù e dei santi, l’ispirazione che è un rendersi conto, la realtà: non siamo fatti per orbitare come satelliti e prima di tutto conviene andare al punto, e il punto è che l’abbandono alla verità di Dio assomiglia così tanto alla libertà da farti pensare che te l’eri solo dimenticato e che anzi, e appunto, ci giravi attorno.  Nessuna indagine sulle motivazioni, sugli stati d’animo, solo il riferimento alla vita dei Santi in gloria di Dio.

L’Imitatio Christi di Ignazio di Loyola non è seviziata dalle quintalate di psicologia contemporanea e, al fine di garantirgli una salvezza, scorda la propria interiorità.

Il suo camminare nella verità è cosa persino ovvia, che non lascia spazio a introspezioni e perorazioni, ma solo a una direzione certa. Nell’elevazione la ricerca di una legge che è verità e che non si trova nei codici civili e penali.

Niente che sia a portata di mano, che si possa raggiungere con un click comodamente da casa. Fuori, guardando il cielo nei momenti di scoramento, come inviterà a fare anche Pavel Florenskij qualche secolo più tardi.

Il sognante trasporto della casalinga che fuggirebbe con l’amante in qualche angolo del pianeta, l’impiegato pubblico che anela all’impermanenza buddista, l’imprenditore stanco che mollerebbe tutto, la vegana ascetica, il giovane contadino autarchico e barbuto, il quarantenne alternativo pessimista su tutto fuorché di sé e voglioso di corsi serali in lingua inglese sospettano, o sperano, che i loro tiramenti siano rivoluzionari.

La rivoluzione parte da un punto per poi riportartici e consapevoli che un doppio significato difficilmente si dà, possiamo tranquillamente accogliere quello cosmologico, tanto più che suona bene e rappresenta come si deve lo stupore inebetito di chi si ritrova al punto di partenza.

E dopo l’ennesimo incantamento, ripartire senza fermare la rivoluzione può sembrarci rinfrescante, anche consapevoli, sotto sotto, che la questione principale è elusa e non potrebbe essere altrimenti.

Per forza i conti non tornano… qualcosa manca e rincorrendo la libertà si ritorna inconsapevolmente al ritmo, al respiro cristiano, smarrendone l’intelligenza, lo slancio, l’espiazione, l’elevazione. E con ciò il fiato si fa corto, affannato e l’uomo bisognoso di svaghi e di sballi, del primo pretesto utile per non pensarci, mentre è di pensarci che torniamo a bisognare.

E se del non poter non dirci cristiani non siamo più all’altezza, ci basterebbe un ben più mesto appunto, a rinfrescare la memoria di coloro che ancora credono di esserlo. Come parla e si muove nel mondo un cristiano? Liberati dalle mode e dai tic moderni e postmoderni sappiamo ancora, come lo sapeva Sant’Ignazio, di cosa stiamo parlando?

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Massimo Fontana

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