Sul concepimento e la gravidanza si diffondono da anni fiumi di inchiostro scientifico, laghi di inchiostro psicanalitico, ma c’è ben di più da dire – ed è quanto non si è (quasi) detto finora. Ma la voglia di scrivere quel libro me la toglie il saggio fresco di stampa di Teresa De Monte (Due in uno, Ar, 2017), che ci introduce immediatamente nei luoghi del mistero e si aspetta solo che sappiamo rimanerci in piedi e con gli occhi bene aperti.
E io cosa potrei dire di più e di meglio? Potrei solo, forse, raccontare qualche esperienza personale, su come i figli si rivelino già in chi tu sei durante i nove mesi della gestazione, di quel riverbero innegabile in te del loro carattere. Tutti i miei figli, finora, somigliano a chi ero io mentre li avevo nella pancia. O forse sono stati i miei umori di allora a plasmarli? Ecco un nuovo mistero su cui vale la pena soffermarsi. Perché c’è un’unica certezza, a proposito della meraviglia della gravidanza: che nulla si esaurisce nella sua dimensione materiale (fatta di acido folico, aminoacidi, calcio ferro zinco, analisi del sangue, ecografie etc.…). Che è davvero, per tutti – la madre in primis, ma chiunque la circondi –, un’occasione per cercare un ascolto più sottile dei motivi dell’esistenza; una sorta di laboratorio di impersonalità, magnanimità, libertà, coraggio e profondità di pensiero e sentimento; un esercizio di giustizia non convenzionale, ad personam; un suggerimento per la miglior traduzione (viva) del termine ‘pietas’.
Chi ci è arrivato più vicino a considerare la gravidanza in questi termini sono, da noi, gli steineriani, ma già millenni fa gli indù che si affidavano all’Ayurveda (e molti altri popoli retti dalle proprie tradizioni).
Ecco: di fronte alla certezza che un feto è impastato di pensieri e sentimenti quanto di vitamine e volute del dna, immaginate quale risposta politica si possa dare a proposte indecenti quali l’utero in affitto, negazione del rischioso, eroico, teurgico splendore della generazione. Resa al capriccio ‘isterico’ che si finge umano.