Musica. Rino Gaetano, lo spirito del tempo e il cielo sempre più blu

Rino Gaetano
Rino Gaetano

Parole che si trasformano in immagini, filastrocche che contornano sogni. Questo sono le canzoni di Rino Gaetano. Inevitabilmente ecco la retorica che straborda, la frase ad effetto per elogiare un artista scomparso sulle cui opere si sono espressi numerosi elogi, contrapposti da sprezzanti critiche quando il suddetto artista era ancora in vita. Il rischio è quello di trasformare una persona che scrive e compone canzoni seguendo la propria sensibilità, in un personaggio, comodo o scomodo che sia, a seconda delle tendenze culturali e politiche del tempo.

Il regno del nonsense è l’etichetta che più spesso è stata affissa alla memoria e alle creazioni di Rino Gaetano ma, al tempo stesso, come tutte le etichette, rischia di sgonfiare enormemente il valore profetico, fuori dagli schemi, epico ed eroico delle sue canzoni. Rino è stato uno dei primi a fare satira, a scomporre i testi creando fotogrammi, quadretti surrealisti, serigrafie musicali in cui c’era spazio per la descrizione ed il racconto.

Si scandagliava lo spirito del tempo. Le mode, l’egemonia culturale, la cronaca, i sentimenti; tutto materiale degno di essere raccontato e cantato e Rino lo faceva, senza sovrastrutture ma scombinando, con un sorriso beffardo, le carte in tavola, si trovasse al Folk studio, a Sanremo o da Maurizio Costanzo.

Si parlava dello spirito del tempo. Già, gli anni settanta. Gli anni settanta da storia sono diventati mitologia, l’humus principale e nutriente di molteplici fiction, serie tv, film, saggi e romanzi. In quel panorama, in quel pantheon mitologico (perché secondo certe chiavi narrative i settanta corrispondono ad un poema epico), c’erano i cantautori, i quali, come li chiamava Guccini (degno apripista della scuola cantautoriale ma un po’ troppo – suo malgrado- eretto a padre mitico) erano quasi costretti a prendere una posizione rispetto alle tematiche calde del tempo (una su tutte la questione operaia). Un certo senso comune li avrebbe voluti profeti laici con l’eskimo e la barba lunga, i quali, armati di chitarra, avrebbero cantato a ciclo continuo i canti della rivoluzione. Del resto, la flessione del senso sociale di cui avrebbe parlato Max Gazzè nel ’98 non si era ancora verificata e, di conseguenza, chi si diceva cantautore doveva obbedire a certe regole non scritte. In questo panorama intriso di anticonformismo acritico, Rino Gaetano  risultava sfuggente ed etereo, con la potenza dirompente che le sole cellule impazzite (insieme ai precursori) possono avere.

Scalzando la dicotomia “persona/personaggio”, la poetica di Rino ha rivelato una potenza fuori dal tempo, analoga alla carica che i cartoni animati riveleranno poi negli anni ottanta. Rino travalica le definizioni, le memorie e le nostalgie, perché lui e le sue canzoni sono destinate a rimanere in un eterno presente per offrire stimoli ed esaltazioni come solo l’arte più vera ed onesta è in grado di fare.

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Stefano Sacchetti

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