L’intervista. Il cantautore Pagliarulo: “Cadere nei buchi neri della musica per conoscersi”

giuseppe pagliaruloCerti album sono pari ad uno schianto, sono simili ad una folata di vento che accarezza la faccia e toglie, per un attimo, il torpore, scoria di giornate macinate da chissà quale routine. Fare musica, per artisti come Giuseppe Pagliarulo, attraverso il suo album d’esordio Rapporto di gara, equivale a rispondere ad una chiamata, una chiamata che parte dalla forza della vita e arriva a toccare l’intimo delle singole vite, nutrendosi di esperienze e sensazioni spesso esplosive. Emerge finalmente un positivo ed alto tasso di urgenza espressiva, che si esprime attraverso un fuoco che divampa improvvisamente attraverso accordi taglienti, sferzati con la consapevolezza di dare un ordine al caos di situazioni esistenziali confuse, sparpagliate, sospese che tentano a loro volta di rimanere in equilibrio nonostante la loro fragile consistenza. E Rapporto di Gara, è tutto questo. Infanzia e Adolescenza in quel di Eboli, città che richiama inevitabilmente l’opera di Carlo Levi, Università a Bologna, città multiforme e multistrato. Le influenze dei diversi contesti si intrecciano con l’autobiografia che il Nostro ci racconta in questa intervista. Rapporto di gara è un album vero, spontaneo e profondo. Multistrato, per l’appunto, come non se ne sentivano da tempo. È la relazione di una partita tra emozioni, situazioni e prospettive che si rompono e si ricompattano in una nuova forma, che si concretizza in un progetto di ampio respiro, da ascoltare e da assorbire. Un esempio a cui dovrebbe ispirarsi il variegato mondo del cantautorato nostrano.

 

Un tempo si sarebbe detto che hai un approccio punk: semplice, diretto, ma profondo. Tu come ti definiresti? Come ti percepisci?

Definirmi è davvero difficile, percepirmi un po’ meno. Scrivere musica per me è una lotta con me stesso: le combinazioni di note, parole, paesaggi sonori sono infinite, scegliere o meglio decidere quello che può essere l’intruglio perfetto è impossibile; è una lotta che può portare ad un circolo vizioso in cui un musicista può diventare davvero pazzo, nella continua ricerca del capolavoro finale. Per non rischiare la schiavitù di questo circolo, io cerco semplicemente di scrivere musica che sia il più possibile aderente al modo in cui mi sento e dunque mi percepisco in un determinato momento della mia vita. Non so se sono capace di fare buona musica, ma vivo con la pace nel cuore di chi cerca di essere il più possibile onesto con l’arte che fa. In sostanza mi definisco punk nello stile, ma onesto nel modo di scrivere. E’ per questo che la mia musica è sempre il riassunto di quello che mi accade negli anni, di come il mio cuore e la mia sensibilità filtrano il tutto. Ti ringrazio per aver detto che ho un approccio “semplice ma profondo”, noto che hai colto il punto, senza cadere nella tentazione di credere banale nel contenuto ciò che è leggero all’orecchio.

 

In un’intervista di qualche tempo fa, hai detto che per fare musica ci si deve quasi sentire chiamati. Tu quando hai sentito la “chiamata”?

Sono stato un bambino introverso e taciturno, poi un adolescente abbastanza emarginato. Cercavo in tutti i modi di allacciarmi al mondo dei miei coetanei, fatto di partite a calcio (gioco che adoro), fidanzatine che durano una settimana ed uscite il sabato sera con ventitré chili di gel in testa. Per un po’ ci sono riuscito, ma il senso di vuoto ed il bruciore nello stomaco persistevano. Ho sempre apprezzato la musica pop, ascoltando la radio in giro per bar e rosticcerie con gli amichetti del pomeriggio c’era sempre il ritornellone che mi seduceva e mi perseguitava. Poi la mia chiamata è arrivata intorno ai quattordici anni. Non so perchè e non lo saprò mai, con 20 euro che avevo risparmiato dalla gita di terza media (che i miei coetanei avevano speso per il  gel e per le cover del 3310) andai a comprarmi Californication dei Red Hot Chili Peppers. Non dimenticherò mai le nottate passate con il lettore cd a pile ad ascoltare “Otherside” e “Parallel Universe”, col volume bassissimo per non svegliare la mia famiglia, mentre fuori dalla finestra fissavo l’orizzonte e le lucine che vanno verso il mare della Piana del Sele. Era finita la mia solitudine. Fare musica è un modo per ringraziare l’Universo per non avermi abbandonato, farla nel modo migliore possibile è cercare di essere anche degno di questa chiamata.

Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali e letterari?

Intorno ai 16 anni sono stato introdotto alla grande tradizione degli anni sessanta e settanta: Lou Reed (che mi ha influenzato nella mia ossessione per il testo) ed Iggy Pop su tutti. E’ stato un periodo in cui la mia crescita è andata un po’ all’inverso rispetto allo sviluppo normale degli ascolti di un adolescente. Quelli sono gli anni in cui dovresti martellare le tue orecchie con gente tipo Nirvana, RHCP,Radiohead, Muse,Green Day, Offspring, Misfits, Ramones, Sex Pistols, Pearl Jam, Soundgarden… In quel periodo nell’ambiente che frequentavo erano un po’ bollati come “banali” e non li ascoltavo per imitazione…Grave errore. Accantonai la mia attitudine pop, che invece per me oggi è un vanto. Per fortuna tempo dopo ho recuperato gli ascolti persi e ho scoperto il mio stile nella scrittura.

Per quanto riguarda i miei ascolti recenti, e ti parlo proprio di venti minuti fa, in questo momento ho una gravissima infatuazione per Niccolò Fabi, Damien Rice e Stevie Wonder.

Dal punto di vista letterario il mio punto di riferimento sono gli scrittori italiani del novecento, quella meravigliosa scuola che ha visto sfornare nell’arco di pochissimi anni eroi come Calvino, Pavese, Carlo Levi, Pasolini… Nel loro modo di scrivere e di osservare le cose degli uomini in generale c’è la meravigliosa fotografia dell’Italia che era e che sarebbe diventata, che temevano sarebbe diventata, che poi tremendamente è diventata. Non erano dei veri e propri profeti, ma semplicemente persone dalla sensibilità artistica smisurata, dunque dalla sensibilità smisurata. Onore a loro nei secoli dei secoli, mi scuso per quelli non citati. Leggo poco recentemente.

Rapporto di gara, il tuo primo album. Quando nasce? Di quali influenze risente?

Ribadendo che la mia musica è il riassunto filtrato e ben vestito di come il mio fegato interpreta la mia esistenza, Rapporto di gara è il racconto dei miei anni universitari, dove per università si intende la storia di un ragazzo che lascia la propria casa, va a vivere a settecento chilometri di distanza (che in Italia possono sembrare nove giri del mondo) e prova a vedere l’effetto che fa essere adulti. Ci siamo fatti male, molto male, ma poi ne è venuta fuori la mia prima creatura e ne sono molto fiero. Il mio primo disco è stato per me l’occasione concreta in cui ho capito il lavoro che voglio fare.

Dal punto di vista delle musiche nel momento della scrittura stavo ascoltando in maniera ossessiva tutta la discografia solista di John Frusciante, gli italiani Dente, Afterhours, 24 Grana, TDO, Ministri, Andrea Appino. In fase di arrangiamento il produttore/bassita/chitarrista Felice Calenda ed i musicisti Nicola Bonelli (batteria), Cristian Peduto (tastiere) e Carmine Di Leo (Chitarra in “Ottobre”) mi hanno aiutato a spostare il sound verso cose più dure, che facevano comunque parte dei miei ascolti: Nirvana, Foo Fighters, Queens of the Stone Age.

 

La musica può diventare il mezzo per conoscere se stessi?

Certo, ma è un mezzo pericoloso. Generalmente un artista è un individuo nel cui animo risiedono buchi neri supermassicci con cui fare i conti, che non vedono l’ora di intraprendere dei faccia a faccia per vedere chi è più bravo ad urlare. Iniziare a fare musica in maniera onesta e iniziare a fare arte in generale è come decidere di scendere in quel pozzo oscuro. La musica può diventare il mezzo per conoscere se stessi, ma nello stesso tempo può essere occasione per scoprire che non ci si conosce per niente, e che solo ridottissimi spicchi della nostra personalità sono concessi alla nostra vista.

Come è cambiata la tua esistenza con Rapporto di gara?

Il salto nel pozzo nero è stato divertente, quando ho toccato il fondo un po’ meno. I concerti, i passaggi nelle piccole radio, le recensioni, le interviste, la gente che canticchia le tue canzoni…roba che ti fa venire i brividi dietro la schiena. Il difficile è venuto dopo ed ora, il momento in cui fai i conti con la tua mediocrità e poca preparazione, il momento in cui metti a fuoco che se vuoi essere parte di questa grande tradizione devi faticare, sudare, soffrire e convivere con la perenne sensazione di non essere all’altezza: è un cammino di purificazione, in cui il restare ed il resistere alla tentazione di comprare il gel e le cover del 3310 fanno parte dell’insieme di prove che attestano se sei degno di essere un artista.

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Stefano Sacchetti

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