L’analisi (di G.deTurris). La post-verità tra Trump e l’influenza dei social

Donald Trump

La vittoria di Donald Trump ha sconvolto molte carte in tavola e molti luoghi comumi. Vittoria che non si aspettavano né l’establishment politico, né i grandi giornali americani e internazionali prevalentemente tutti schierati “a sinistra”, più o meno progressisti.

Le recriminazioni, le giustificazioni, le spiegazioni sono state infinite e in genere ridicole: i commentatori italiani di politica estera sono in prima linea e  se non esistessero bisognerebbe inventarseli. La cosa più esilarante è che tutta questa gente si è vista ritorcere contro quel che di solito era un loro specifico strumento di lotta politica e, proprio perché usato da loro, pienamente legittimo, democratico, utilizzabilissimo. Vale sempre il doppiopesismo sia qui da noi che all’estero.

Prendiamo la faccenda di questo nuovo oggetto di culto massmediatico, la post-truth, la post-verità di cui hanno parlato i redattori del Dizionario Oxford, usando e facendo la fortuna di un termine non coniato da loro ma una decina d’anni fa da un certo David Robert del sito ambientalista  Grist. La post-verità si riferisce alle “circostanze in cui fatti oggettivi sono meno influenti nel modellare l’opinione pubblica  rispetto agli appelli emotivi e convinzioni personali”. Un lungo giro di frasi politicamente corretto e ipocrita per affermare che le falsità  hanno spesso il sopravvento sulla realtà specie in politica e specie nella Rete. Cosa che si sapeva da sempre senza che gli esperti linguisti inglesi strombazzassero il neologismo post-verità al posto di bufala, menzogna, modifica o adattamento della realtà, estremizzazioni demagogiche eccetera.

Però è questo un modo per denunciare che Trump ha vinto sfruttando l’emotività degli elettori americani grazie ad un uso spregiudicato di certe affermazioni tramite le Reti Sociali, sapendo utilizzare meglio della avversaria Clinton Facebook, Twitter, i siti d’informazione  e i blog di discussione. Se avesse vinto le elezioni la signora Hillary nessuno si sarebbe indignato di tutto questo, dato che avrebbe trionfato il Bene sul Male, il Progresso sull’Oscurantismo, dimenticandosi della valanga di fango lanciato contro  il magnate da lei stessa e dalla stampa progressista insistendo soprattutto sugli “scandali sessuali” di anni prima, ma senza risultati pratici apprezzabili anche nel paese in cui detta legge il politicamente corretto. Ma ha vinto The Donald e allora ci si può indignare di un fatto a tutti noto e da sempre denunciato: e cioè che nella Rete circolano moltissime sciocchezze, specie complottiste, cui credono milioni di persone. Una realtà alla quale gli impegnatissimi giornalisti e politici non hanno mai dato troppo peso fino a quando non si è ritorta loro contro.

Tutti sembrano dimenticare che le campagne elettorali in ogni Paese del mondo è fatta di colpi bassi, di accuse personali, di scandali veri o presunti, di demagogia da quattro soldi, di promesse che non saranno mantenute: in Italia lo sappiamo benissimo. L’importante è vincere, poi si vedrà. Una cosa sono le affermazioni ideologiche, un’altra cosa è il possibile realismo che una volta vinta la partita l’eletto dimostra. E si sa quanto negli Stati Uniti i repubblicani siano più concreti e pragmatici  dei democratici, i quali si basano in genere su programmi squisitamente ideologici. Una delle prime cose che ha fatto Trump, tanto per dire, è stata di andare nella tana del lupo, la redazione del New York Timnes, dopo essere stato attaccato violentemente durante l’intera campagna elettorale e dopo aver  pesantemente insultato i suoi giornalisti…

Non si capisce il motivo della meraviglia per aver scoperto che non tutto quanto Trump ha detto nelle sue polemiche fosse vero e alcune sue accuse campate in aria: ci si dimentica, insisto ancora, dell’assalto contro di lui e la sua famiglia e i suoi interessi lanciato a testa bassa non solo dalla sua concorrente ma dalla grande stampa statunitense anche qui con menzogne, trucchi, amplificazione di dicerie o sciocchezze.

L’aspetto più paradossale di tutto ciò sono stati i commenti dei giornalisti italiani considerati specialisti di politica estera e degli ISA in particolare, e così non appena Trump è diventato “presidente eletto” ed ha cominciato a fare dichiarazioni non più da candidato alla Casa  Bianca ma da prossimo suo inquilino, e perciò meno demagogiche e più meditate, si sono profondamente indignati. Ma come! Non rispetta quanto aveva promesso e per cui è stato votato! È un superficiale, un volubile, un inaffidabile, un voltagabbana! Peggio, un “volatile” che cambia idea dopo aver ascoltato l’ultima persona con cui ha parlato! Un futuro presidente pericolosissimo. Cose da non credere: invece di essere soddisfatti che Trump non è poi così “estremista” come lo si pensava, si indignano perché ha moderato alcune sue idee… Ha nominato due donne, una figlia di immigrati indiani addirittura, forse nominerà un ebreo e un negro! Ma non era sessista, antisemita, razzista? The Donald spiazza tutti, prima e dopo. Ed ecco i paralleli, con tanto di specchietto, su quella che diceva appunto prima e poi dopo per dimostrarne l’incoerenza. Ma mai che ne avessero fatto uno per dimostrare le bugie e la mancanza alla parola data  di un Matteo Renzi… Da non credere della sanità mentale di cere grandi firme, ma credere invece come ogni appiglio è buono per far polemica aprioristica. In futuro sarà anche peggio, ogni occasione sarà buona per sputtanare il 45mo presidente USA.

Su una cosa, però, questi augusti esperti continuano ad essere convintissimi. Il magnate è stato votato dalla massa ignorante e facilmente suggestionabile delle piccole città di provincia e delle campagne americane, mentre i ceti elevati e acculturati delle metropoli non hanno abboccato al suo richiamo “populista”. Quello del convincimento delle masse è problema vecchissimo e se ne occupavano già i sociologi europei più di un secolo fa, per non parlare dei “persuasori occulti” di Vance Packard e della sterminata serie di libri dedicati all’opera sottile di cinema e televisione. Perché tanta meraviglia e indignazione scandalizzata? Solo perché, lo si deve sottolineare ancora, ha prevalso quello che non era il favorito, anzi la favorita, della “gente che conta”. Se i poveri degli sluim, se gli agricoltori in crisi, se gli operai disoccupati, se i diseredati e la media borghesia fossero stati convinti della bontà  delle riforme di Obama, che la Clinton annunciava di voler continuare e concludere, avessero votato per lei, credendole, nessun problema, ovvio. Se ne deve concludere allora che nella sterminata provincia e campagna statunitensi sono giunti i nuovi media? Che i rozzi farmer usano attivamente le Reti Sociali da cui sono stati influenzati? Ma il valore di una votazione è complessivo, non settoriale. Non contano solo i voti delle capitali dei singoli Stati degli USA, ma di tutta la loro popolazione. Come se si dicesse che un certo partito, diciamo il PD, viene votato alla grande solo a Milano, Torino, Roma eccetera, e quindi la vittoria di un altro partito, diciamo il M%S, è considerata falsata perché votato solo dalla buzzurra provincia italiota…

Ma la verità non è esattamente questa. Infatti, da una tabella pubblicata sul Corriere della Sera del 15 novembre 2016 e che ha per fonte la CNN, si vede che la trombata signora Clinton è nettamente in testa (diciamo con l’80 per cento) nelle “aree densamente urbanizzare” (“città”), mentre Trump prevale in modo evidente nel “restio della nazione”, vale a dire, secondo lo schema: sobborghi delle metropoli, città medie, piccole città, villaggi, aree rurali, in un crescendo di conensi nettissimo, dal 70 al 90 per cento. Le metropoli non rappresentano, dunque, non solo l’intera America, ma nemmeno l’unica America esistente, quella che conta, a meno di non voler proporre una riforma del suffragio universale in base a dove si vive o al grado di istruzione o al censo…

Quel che non si vuole capire con ostinazione degna della miglior causa è che la gente – dall’Europa agli Stati Uniti – si è stufata della demagogia ideologica dell’establishment, dei politici e degli intellettuali radical chic, della ideologia astratta e separata dalla realtà, insomma di essere guidata da élites pseudo illuminate, fasulle, taroccati, che non hanno capito le nuove emergenze del mondo e non sanno affrontarle e risolverle, che dicono di operare sempre per “il bene del popolo” prendendo decisioni che alla fine il “popolo” medesimo non accetta.

Stenio Solinas in un articolo su Il Giornale ha fatto una splendida metafora: le nazioni europee e l’America sono come un treno lanciato a gran velocità: in esso la gente non riesce a parlare con i responsabili, a chiedere spiegazioni perché non vede nessuno, non riesce a scendere perché le porte sono bloccate  e allora si ribella e comincia a rompere i finestrini. Correggerei un particolare: il treno non è privo di macchinista come scrive Solinas, ma ce l’ha, eccome, ed esso, sia se considerato “di destra” come “di sinistra”, ornai dice e fa le stesse, identiche cose, non c’è quasi differenza nei loro programmi, proposte e soluzioni, come anche Solinas ricorda, ed è proprio per questo che i viaggiatori-cittadini non ne possono più, vorrebbero fermare il convoglio, cercano vie d’uscita e percorsi diversi, anche traumatici, che ritengono in ogni caso migliori di quanto non paventino i politici di professione, la  grande stampa progressista, gli intellettuali engagés, i banchieri che li truffano, la burocrazia che li opprime, un fisco inumano, uno Stato che non li difende più perché “buonista”.

Come dice un vecchio proverbio sempre valido: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. E non dia la colpa agli altri.

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Gianfranco de Turris

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