Il racconto. Msi e la giovinezza in piazza per chi crede nella più mediterranea delle idee

Un comizio di Giorgio Almirante
Un comizio di Giorgio Almirante

“Not  all who  wander are lost”

J.R.R. Tolkien

In quella primavera profumata dal vento adriatico, Riccardo trascorreva le sue serate nelle piazze. Le giornate si erano allungate e in alto, tra i cornicioni, le rondini casiniste musicavano le ore serali.

Era un quindicenne magro e svogliato. Il suo mondo girava con una fretta incomprensibile. Il liceo era rigido e ripetitivo. Poi sua madre diceva sempre, “Studia! Questa sera non esci!”

Invece, quella sera, doveva uscire. Doveva andare ad un comizio, per fermarsi, con la tua faccetta tesa, sotto un palco. Sotto un vecchio tavolato, osservava o gli stivaletti di un consigliere comunale o i mocassini del segretario nazionale. Doveva andare al comizio per spellarsi le mani. Per ascoltare parole come sicurezza, onestà, famiglia, riforme nazionali,..   risuonanti nel  suo piccolo petto.

C’era il comizio di chiusura. Campagna elettorale per il rinnovo del Comune di Bari. Forse il 1980 o il 1981. Ma le date non sono sempre utili ai ricordi.

Gli amici lo avevano preso in giro – aveva rifiutato una partita nel canalone di San Girolamo -,“Lo scemo va ai comizi!” e via con le risate.

Ma Riccardo lasciava stare perché, con l’immaginazione, correva verso una piazza di bandiere; perché filava verso la sua passione, il Movimento Sociale Italiano.

Ore diciotto. Piazza Fiume. I volantini tricolore fluttuavano in aria. I giovani del Fronte della Gioventù distribuivano giornali, senza chiedere una lira. Degli uomini facevano girare Il Secolo d’Italia per una lettura veloce e collettiva.

Le facce erano rilassate, facce di chi sapeva che cosa volesse dire essere là: essere opposizione, essere una comunità, essere semplici e coraggiosi.

Riccardo si sentiva fortunato: i ragazzi avevano preparato un tavolino con dei libri in vendita. Ne comprò uno, copertina celeste, con le sue paghette  risparmiate.

In corso Cavour i baresi andavano spediti per fare acquisti.  Le palme si curvavano sul via vai spendaccione. In piazza Fiume luccicava l’insegna del teatro Petruzzelli. Le finestre della vicina Banca d’Italia erano rimaste aperte ed accese.

In piazza c’era un tipo baffuto con il bandierone monarchico, uno che non mancava mai.

Dietro il palco due carabinieri borbottano sugli orari del loro servizio.

Un giovane patriota sul palco con Almirante in Molise

Crocchi di giovani non stavano fermi; si spostavano per compattarsi e cantare.

Bambini giocavano urtando la gente in attesa; raccoglievano da terra i santini: le figurine con i volti dei candidati.

Proveniente da una passeggiata una lei, capelli biondi, ad un lui, giacca spigata, diceva “Almirante è un gran signore!”  

In quei comizi baresi del Movimento Sociale Italiano, c’era spesso un uomo grasso. Un tipo buffo. Ansioso. Il quale, al servizio d’ordine, ripeteva,  “Attenzione ai comunisti!”

Il palco iniziava a riempirsi. Ecco salì Araldo Di Crollalanza, un uomo mite, il senatore del popolo barese. Ecco Giuseppe Tatarella con l’ospite venuto da Roma, il direttore del quotidiano di partito Il Secolo d’Italia, Nino Tripodi.

I canti dei ragazzi volavano sulla cupola del Petruzzelli, “La lotta è dura ma non si molla…” il coro ripeteva “Boia chi molla!” e Riccardo pensava un po’ al boia incappucciato tagliatore di teste durante la rivoluzione giacobina.

Prese la parola Araldo Di Crollalanza. Con un abbraccio ai suoi concittadini: un abbraccio tuttora raccontato da una statua a lui dedicata sul lungomare barese.

Di Crollalanza – uomo esile là sul palco – fu un energico ministro. Non dormì, molte notti, per i convogli da inviare ai terremotati lucani nel 1930. In quella piazza tutti sapevano che, senza arricchirsi, egli curò la costruzione di città, Littoria, Pomezia,.. e così innalzò l’edificio della sua onestà.

Poi parlò Nino Tripodi, un raffinato intellettuale; e Riccardo aveva comperato il suo libro, con la copertina celeste, dal titolo La cultura di Destra propone…

Il traffico nervoso non dava fastidio al comizio mentre iniziò a parlare Tatarella. La sua testa si spinse verso il microfono. Quasi per azzannarlo. Sul suo volto si concentrò lo sguardo di quella piazza gremita.

Saluti… Ringraziamenti… E poi una storia… Tatarella disse che era venuto per raccontare che C’era una volta un ricco barone, un tale Fizzarotti, sciupone  di danari e donne. Suo fu il sontuoso palazzo costruito in corso Vittorio Emanuele.

Nei primi anni del Novecento, i baresi conoscevano questo gran signore e raccontavano delle sue cinque F, cioè “Fizzarotti Facendo Follie Fece Fortuna!”

La voce missina barese di quegli anni era contro la Democrazia cristiana di tale Farace, perciò Tatarella ricordò che i baresi avevano il problema delle cinque F di Farace, cioè “Farace Fallito Faccia Fagotto in Fretta!”

Pareva che l’oratore parlasse in confidenza alla piazza nella luce del tramonto. Tatarella, detto Pinuccio, accompagnava la sua voce con i moti della cravatta; le sue braccia non stavano ferme; i suoi pensieri schizzavano contro gli amministratori pubblici,  fattucchieri imbroglioni.

Intanto il vento di mare, fresco e odoroso, frustava il tricolore sul palco.

Tripodi e Di Crollalanza battevano le mani. La luce dei fari accesi dondolava. Soltanto gli occhiali di Tatarella, soltanto quegli occhiali in osso, rimanevano inspiegabilmente statici sulla sua fronte, insolitamente incollati sulla fronte.

All’improvviso, un marcantonio senza capelli, vestito con una tuta da meccanico, urlò, “Non mi danno lavoro,  perché non sono di sinistra!”

Il comizio  terminò: tanti attivisti sotto il palco per stringer la mano agli oratori.

Riccardo si avvicinò al palco. Aveva in mano il libro di Nino Tripodi. Sperava in un autografo. Ma nessuno notava il ragazzino. Le sue strette spalle non potevano mica spingere in quella ressa. I politici gli passarono davanti; ed esclamò un timido, “Mi scusi…”

Era difficile farsi notare tra quei missini entusiasti. Ma lo notò Tatarella. Che disse, “Vieni qua!” strappandogli il libro che  fu messo sotto gli occhi di Tripodi, per un autografo.

“Ragazzo, alza i tuoi libri! Se non lo fai, non te li firma nessuno! E poi nessuno sa cosa pensi!” esclamò Tatarella.

“… alza i tuoi libri!”

Sono trascorsi i decenni. Quella frase risuona ancora nella mente di Riccardo. Alza i tuoi libri. Cioè falli vedere. Cioè questo libro sei tu. Alza i tuoi libri,  altrimenti  nasconderai te stesso.

Ore venti. Contento per l’autografo. Lieto per il libro comperato. Riccardo lasciò piazza Fiume. Da solo. Attraversò corso Cavour. Senza fretta giunse in via Melo; ma alle sue spalle qualcuno rideva; non erano solo risate nell’istante in cui riconobbe Bandiera rossa, fischiettata dietro di lui.

Girata appena la testa, vide due giovani: uno aveva i capelli lunghissimi, l’altro un  berretto da ferroviere.

“Dove scappi! Ora ti spacchiamo, cane missino!” e sentì i pugni arrivare. Rapidi. Uno due tre… Sul volto… Sulla testa… Sull’orecchio… E un pugno fece tuonare una sirena nel suo orecchio destro.

Dopo pochi minuti, il ragazzino si rese conto di essere steso sul marciapiede come un animale, un cane o un gatto sbatacchiato da una auto in corsa.

“Ti piacciono i comizi di merda!” mentre il giovane con il berretto da ferroviere gli mollava calci sulla schiena.

L’altro diede una pedata al libro di Tripodi che schizzò sotto un auto parcheggiata, “Così impari, coglione!” dissero i rossi,  prima di scappare verso via Abate  Gimma.

Riccardo si alzò. Ricadde sulle ginocchia. Non udiva i rumori delle auto. Si attaccò ad un palo; le mani insanguinate scivolavano su questo  palo.

Gli usciva sangue dall’orecchio, scorreva sul collo, macchiava la camicia. Sanguinava  pure la  bocca. Un pezzetto tagliato di labbro toccava il mento. Quella faccia di adolescente sembrava lavata nel sangue.

Una donna si avvicinò. Riccardo le disse se avesse potuto pigliare quel libro celeste… quel libro là… finito sotto la macchina.

Con qualche difficoltà, la donna lo prese; il ragazzo lo strinse con la sua mano bagnata di sangue.

La violenza è una triste conquista. Non si arriva facilmente alla violenza. Prima devi prepararla dentro di te. E quei due rossi avevano preparato, molto prima, la furia contro un ragazzino. Forse furono pestati pure loro. Forse fummo tutti pestati. Tutti unti dalle bave della Storia.

Il cuore della Storia è gelido.

Volarono i decenni. Riccardo non pensò più ai comunisti che lo picchiarono. In quei giorni, però, i medici gli dissero che, per le conseguenze dell’aggressione, avrebbe avuto gravi problemi all’udito per sempre.

Qualche volta, Riccardo, cinquantadue anni, ingegnere, nella sua libreria va alla ricerca di quel libro celeste. Gli piace rileggere la dedica di Nino Tripodi, morto tanti anni fa. Lo colpisce sfogliare quelle pagine colorate del suo sangue, ormai un colore  stinto, una macchia a forma di  farfalla.

Dalla finestra Riccardo osserva le persone con le borse dello shopping e le palme di corso Cavour ormai secche; un coleottero vorace le sta divorando, sta spolpando l’anima degli alberi.

Le palme lacerate. La strada inquinata dal traffico. C’è piazza Fiume più giù. Dalla finestra si vede il  teatro di plastica. Il ricostruito Petruzzelli.

Sul vicino marciapiede adesso cammina un ragazzino. Indossa una casacca celeste. Saltella. Va verso il lungomare; laggiù l’aria è respirabile. Ma,  proprio in questo momento, mentre Riccardo mira dalla finestra la città, si rialza il vento dei ricordi, ora che un giornalista televisivo, durante il telegiornale, comunica che settanta anni fa nasceva il Msi.

@barbadilloit

Renato de Robertis

Renato de Robertis su Barbadillo.it

Exit mobile version