Il caso (di M.De Angelis). Una mostra per celebrare il Msi (che fu sciolto frettolosamente)

Corteo Msi contro corruzione, lo striscione del FdG Roma
Corteo Msi contro corruzione, lo striscione del FdG Roma

Giovedì scorso, a Roma, è stata inaugurata una bella mostra di documenti storici – fotografie, manifesti elettorali – per celebrare l’imminente settantesimo anniversario della fondazione del Movimento sociale italiano, che cade il 26 dicembre prossimo. La mostra è stata allestita nella sede di via della Scrofa, che fu l’ultima sede nazionale del Msi e poi di Alleanza nazionale, in una nuova sala polifunzionale ricavata da quella che era la redazione del Secolo d’Italia, storico quotidiano del Movimento sociale e poi di An.

L’anniversario non sarà propriamente un compleanno, visto che il festeggiato non è più da vent’anni e cioè da quando venne messo in soffitta dal famoso congresso di Fiuggi del gennaio 1995, per lasciare il posto ad un nuovo partito, Alleanza nazionale appunto, ormai cessato anch’esso.

Lo scioglimento del Msi fu piuttosto frettoloso e anche la scelta coreografica di una fiamma che spariva dallo schermo lasciando la folta platea al buio – e in lacrime – fu altresì infelice.

Così venne archiviato un movimento che aveva avuto per mezzo secolo un rilievo importante nella storia nazionale – e un percorso per certi versi eroico – per lasciare il posto a qualcosa di innovativo che avrebbe dovuto portare la destra nazionale nel protagonismo politico, dopo il crollo politico-giudiziario di quella “Prima repubblica” che aveva mantenuto i milioni di elettori del Movimento sociale ai margini della vita civile.

Definire il Movimento sociale come “la Destra” dello schieramento politico italiano sarebbe azzardato, anche se fino al giro di boa di Mani pulite in Italia nessuno voleva vedersi affibbiata quella etichetta penalizzante.

In qualunque altra nazione occidentale la Destra è una parte legittima di uno spettro politico in cui anche agli avversari è riconosciuta una pari dignità, nel rispetto di valori condivisi.

Per il Msi non era così. Il perimetro della legittimità includeva solo le forze appartenenti al sedicente “arco costituzionale” – una convenzione tra Dc, Pci e partiti minori – che metteva ai margini il Msi, che si trovò ad essere così il “Polo degli esclusi” – come lo definì Marco Tarchi – o addirittura “un’altra Italia”. Quella buona, secondo gli aderenti e elettori del movimento, quella cattiva e da eliminare, anche fisicamente, secondo tutti gli altri.

Il Msi era sicuramente un partito anomalo, perché rivendicava apertamente una derivazione dal Fascismo e quindi era fuori dal patto costituente.

Giuseppe Parlato, storico accreditato del Fascismo e curatore della mostra, racconta in maniera molto rigorosa – in Storia delle destre nell’Italia repubblicana edita da Rubettino – le modalità e le ragioni della nascita del Movimento sociale a soli pochi mesi dalla fine della guerra, come rete di tutela e rifugio politico e sociale degli sconfitti e delle loro famiglie.

Gli “sconfitti” erano tanti, anzi tantissimi, in un’Italia dove quasi tutti erano stati fascisti prima della guerra e quasi tutti si erano scoperti anti-fascisti dopo. Secondo i calcoli più attendibili, nei due mesi successivi alla resa delle forze militari della Repubblica sociale non meno di ventimila fascisti o supposti tali vennero assassinati. A questo numero vanno aggiunti gli oltre quindicimila infoibati nella pulizia etnica compiuta dai comunisti slavi con l’aiuto dei partigiani italiani. Vanno messe in conto, inoltre, le migliaia di “scomparsi” dopo la cattura o i rapidi processi sommari.

Alla fine del conflitto tornarono alla spicciolata a casa i prigionieri di guerra “non-collaboratori” (quelli che rifiutarono di cambiare fronte e casacca e che, secondo Parlato, erano circa i quattro quinti degli italiani internati) e i detenuti nei vari fascist criminal camp, che furono più di 50mila (tra loro anche il fratello di Romano Prodi, Giovanni, internato nel campo di concentramento di Coltano, dov’era tenuto ingabbiato il poeta Ezra Pound). Poi c’erano le molte centinaia di giovani che avevano fatto la “resistenza” contro le truppe anglo-americane in Sicilia e nel Sud Italia; almeno quelli sopravvissuti alle fucilazioni.

Mettendo insieme tutti questi e le loro famiglie, non c’è da stupirsi se il neo-nato partito neo-fascista prese, già alle prime elezioni del 1948, più di mezzo milione di voti.

In un Paese normale si sarebbe fatto di tutto per portare un tale numero di cittadini rapidamente all’interno di un patto di civile convivenza, ma questo non conveniva alla Dc, partito-Stato che guardava a sinistra e che non voleva contrappesi a Destra, e al Partito comunista filo-sovietico che si vedeva legittimato come custode dell’antifascismo proprio dal permanere in essere di un movimento che si rifaceva al Fascismo.

La vita politica di questi milioni di cittadini, dei loro figli e dei loro nipoti, ancora non è uscita dal ghetto della storia, quindi è encomiabile che qualcuno apra una finestra di documentazione e di testimonianza attraverso qualunque iniziativa culturale. Gli italiani, ormai, dovrebbero avere il diritto di sapere.

E forse si può fare ora, proprio perché di quella eredità resta ormai solo un lascito di carta, che una Fondazione si è assunto almeno l’onere di catalogare e archiviare dignitosamente.

Un’eredità politica, anche se da più parti e litigiosamente rivendicata, non è più spendibile. Se non altro perché – come scriveva Renzo De Felice nell’introduzione al suo Rosso e Nero – ad archiviarla furono proprio quelli che fino al giorno prima ne erano stati i rappresentanti, mossi dalla legittima necessità e volontà di andare oltre o – in molti casi – di diventare altro. Con i “scusa ci ho ripensato!” in politica non si fanno mai belle figure.

La mostra, annunciano gli organizzatori, rimarrà aperta fino al 10 febbraio, data non casuale, perché è il giorno in cui si dovrebbe celebrare il “giorno del ricordo” per i martiri delle Foibe. Quando la ricorrenza venne istituita per legge – solo nel 2004 – i proponenti avrebbero voluto che ci si riferisse ad essa come ad un “giorno della memoria”, come deliberato per quella delle vittime dell’Olocausto, ma la pretesa sollevò uno scandalo. La “memoria” – spiegarono quelli che decidevano allora e decidono ancora adesso cosa è storia e cosa non lo è – è condivisa da tutti, mentre il “ricordo” è qualcosa che coltivano solo alcuni. Forse ancora una minoranza. Forse ancora – e anche per propria responsabilità – solo gli esclusi.

@barbadilloit

Marcello De Angelis

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