Cultura. L’etica del ribelle secondo Alain de De Benoist

5500534-1Dovendo intervenire in una discussione dedicata all’idea di ribellione, la prima delle cose da fare è senz’altro quella di interrogarsi sulla definizione del ribelle, e il miglior modo di farlo è forse quello di paragonare la figura del ribelle a due altre figure, il cui nome comincia tra l’altro con la stessa lettera: il rivoltoso e il rivoluzionario. Queste tre figure hanno indubbiamente degli aspetti in comune. Il ribelle, il rivoltoso e il rivoluzionario, per esempio, incarnano tutti e tre una legittimità che si oppone alla legalità dell’ordine costituito. Ma tra di loro vi sono anche delle differenze.

Il rivoltoso appartiene senza alcun dubbio a tutte le epoche, e il nostro passato ne è testimone. La storia della Francia e dell’Europa può infatti leggersi come un susseguirsi quasi ininterrotto di rivolte popolari, movimenti di protesta e insurrezioni. Dalle antiche jacqueries contadine alla rivolta della Vandea, dall’epoca di Cartouche e di Mandrin all’insurrezione dei canuts lionesi, dalla Guerra dei Contadini tedeschi alla molto socialista e molto patriottica Comune di Parigi, la tenace disobbedienza di certe province e di certi ambienti sociali insofferenti, refrattari e renitenti, è una costante della nostra storia che la storiografia ufficiale ha peraltro troppo spesso trascurato. Per esempio, mentre alcuni storici avevano creduto di poter parlare di «relativo rappacificamento» a partire dal 1670, Jean Nicolas ha contato recentemente qualcosa come 8500 atti di ribellione o di rivolta in Francia tra il 1661 e il 1789.  Di generazione in generazione, ci si rivolta contro la tirannia, contro la pressione fiscale, contro l’ingiustizia sociale, l’assolutismo o i poteri costituiti, ed il bersaglio è di volta in volta il principe, il prete, l’aguzzino o il tiranno. In ognuno di questi casi al rifiuto di una costrizione insopportabile si aggiunge un vero e proprio istinto di rifiuto, molto spesso alimentato dall’appartenenza culturale o linguistica, dalla solidarietà professionale o sociale, dalla chiara coscienza di appartenere ad un’entità collettiva.

Naturalmente le rivolte non sono una prerogativa dell’Ancien Régime, ma sono continuate anche nel periodo repubblicano, e ciò è un segnale di come l’avvento dell’ideologia dei diritti umani non abbia per nulla cambiato le cose. Quest’ultima, universalizzando alcuni valori particolari, ha messo fine a certe oppressioni, ma in compenso ne ha da subito suscitate delle nuove; preoccupandosi degli individui, si è disinteressata delle comunità e dei popoli; affrontando da un punto di vista esclusivamente giuridico e morale – quello dei diritti soggettivi inerenti alla natura umana – problemi legati alla nozione essenzialmente politica di libertà, ha finito per eluderli.

Il rivoluzionario appare invece in circostanze storiche molto particolari. Rispetto al rivoltoso, presenta soprattutto due grandi tratti caratteristici: da una parte è dotato di una coscienza ideologica molto più forte, dall’altra manifesta un’esigenza di trasformazione molto più radicale. Ecco perché si oppone a ciò che considera come puramente istintivo, se non ingenuo, nella semplice rivolta. Ed ecco perché, allo stesso modo, rifiuta ogni riformismo, contrapponendo all’ideologia dominante una visione del mondo diversa. In questo senso, il rivoluzionario è una figura della modernità, che non può che apparire nel momento in cui le ideologie profane hanno preso il posto dei grandi racconti religiosi, nell’epoca in cui la società, erosa dall’interno, sta per esplodere sotto l’effetto delle azioni rivoluzionarie.

Tuttavia, accanto ai rivoltosi ed ai rivoluzionari, ci sono anche i dissidenti, i liberi pensatori e i non credenti, i fondatori di samizdats ante litteram, le vittime dei cacciatori di streghe e dei tribunali della Santa Inquisizione, tutti coloro che nel corso della storia sono stati perseguitati, censurati, imprigionati per anticonformismo rispetto alle ortodossie del momento – tutti coloro che, secolo dopo secolo, si avvicendano e comunicano, formando una lunga catena fraterna i cui anelli sono le parole d’ordine del pensiero libero. Tutti questi sono già dei ribelli, e continuano ad esistere al giorno d’oggi. Sono coloro che disturbano, coloro di cui i guardiani del pensiero unico hanno deciso di non parlare; se non sono imprigionati, sono messi al bando. Le loro pubblicazioni sono a malapena tollerate, in ogni caso emarginate, condannandoli in questo modo alla morte mediatica e sociale.

Alla pari del rivoltoso, il ribelle rifiuta l’ordine dominante del mondo in seno al quale è stato gettato. Come il rivoluzionario, lo rifiuta in nome di un altro sistema di valori, di una concezione del mondo che trova in se stesso e di cui si fa portatore. Tuttavia, al contrario del rivoltoso o del resistente, il ribelle trae innanzitutto da se stesso ciò che anima il suo atteggiamento. La rivolta è legata ad una situazione, ad una congiuntura che ne è la causa, e si spegne nel momento in cui tale causa sparisce e la situazione cambia. La ribellione invece non è legata solamente alle circostanze, ma è di ordine esistenziale. Il ribelle sente fisicamente ed istintivamente l’impostura. Rivoltosi si diventa, ma ribelli si nasce.

Il ribelle è ribelle perché ogni altro modo di esistere gli è impossibile. Il resistente cessa di resistere quando non ha più i mezzi per farlo. Il ribelle, anche in prigione, continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli.Il ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o d’azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che rifiuta, colui che dice: non posso. È colui che disdegna ciò che cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il riconoscimento sociale. Al tavolo da gioco, è colui che non gioca. Lo spirito del tempo scivola su di lui come pioggia sui vetri. Spirito libero, uomo libero, per lui non c’è nulla al di sopra della libertà. È la libertà stessa. «È ribelle, scrive Jünger, chiunque sia messo in rapporto con la libertà dalla legge della sua natura».

Di fronte ad un mondo per il quale non prova altro che un divertito disprezzo o un dichiarato disgusto, il ribelle non può limitarsi all’indifferenza, essendo essa ancora troppo vicina alla neutralità. Il ribelle è fatto per la lotta, sia essa anche senza speranza. Il ribelle si sente straniero al mondo che abita, ma senza mai smettere di volerlo abitare: sa che non si può nuotare contro corrente se non a condizione di non abbandonare mai il letto del fiume. La distanza interiore che lo caratterizza non lo conduce a rifiutare il contatto, poiché sa che il contatto è necessario alla lotta. E se fa «appello alle foreste» per riprendere un’espressione conosciuta, non è per rifugiarvisi – anche se spesso è in esilio –, ma per riprendere forza.

D’altra parte, scrive ancora Ernst Jünger, «la foresta è dappertutto. Ci sono foreste nel deserto così come nelle città, foreste in cui il Ribelle vive nascosto dietro la maschera di qualche professione. Ci sono foreste nella sua patria, così come in ogni altro suolo in cui si può concretare la sua resistenza. Ma ci sono soprattutto delle foreste nelle retrovie del nemico». Se ciò che distingue il rivoluzionario è la volontà di raggiungere uno scopo, il ribelle incarna innanzitutto uno stato d’animo ed uno stile. Ciò non toglie che sappia anche fissarsi degli obiettivi. Nei confronti del mondo che lo circonda, nei confronti del “corso della storia”, della congiuntura, si sforza di identificare e cogliere il momento favorevole. Per rompere l’accerchiamento, per tentare di introdurre un granello di sabbia nell’ingranaggio, ragiona su situazioni concrete. In questo è innanzitutto mobile. Mobilita il pensiero, e fa uso di un pensiero mobile. Non è soldato ma partigiano. Non resta dietro il fronte – sa attraversare tutti i fronti.

                                          L’”ideologia dell’Identico”

Contro che cosa ci si deve ribellare al giorno d’oggi? Di fronte all’ascesa del pensiero unico, di fronte al gonfiarsi di un’onda straordinaria di ciò che non esitiamo a chiamare il conformismo planetario, di fronte alle diverse patologie che affliggono le nostre società, di fronte alle varie minacce che su di esse gravano e che oscurano il loro avvenire, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Mi sembra tuttavia che la maggior parte di questi fenomeni ai quali tentiamo di opporci abbia una causa comune. Mi sembra cioè che questi fenomeni si rivelino come conseguenze di un’ideologia ben precisa, secolare e multiforme, che propongo di chiamare “l’ideologia dell’Identico”.

L’ideologia dell’Identico è un’ideologia che si sviluppa a partire da ciò che c’è di comune in tutti gli uomini. Più precisamente, si sviluppa tenendo conto solamente di ciò che gli uomini hanno in comune ed interpretandolo come l’Identico, e ciò significa, in altre parole, che una tale ideologia non può che aspirare all’appiattimento. L’Ideologia dell’Identico fa spesso riferimento all’uguaglianza, ma ad un’uguaglianza puramente astratta: in assenza di un criterio preciso che permetta di determinarla concretamente, l’uguaglianza non è altro, infatti, che un diverso nome dell’Identico. L’ideologia dell’Identico considera dunque l’uguaglianza universale tra gli uomini come un’uguaglianza in sé, slegata da ogni elemento di concretezza che permetterebbe di accertarla. È un’ideologia allergica a tutto ciò che specifica e caratterizza la singolarità, che interpreta ogni distinzione come potenzialmente spregiativa, che considera le differenze contingenti, transitorie, inessenziali o secondarie. Il suo motore è l’idea di Unico, che è ciò che non sopporta l’Altro, e intende ridurre tutto all’unità: Dio unico, civiltà unica, pensiero unico.

Quest’ideologia si vuole contemporaneamente descrittiva e normativa, poiché pone l’identità fondamentale di tutti gli uomini tanto come un fatto acquisito quanto come un obiettivo desiderabile e realizzabile – senza mai (o raramente) interrogarsi sull’origine di questo scarto tra l’esistente e la realtà a venire. Essa sembra in questo modo procedere dall’essere al dover-essere. Ma in realtà è proprio sulla base della sua propria normatività, della sua propria concezione del dover-essere, che essa postula un essere unitario immaginario, semplice riflesso della mentalità che la ispira.

Alain de Benoist

Affermando l’identità congenita degli individui, l’ideologia dell’Identico si scontra con tutto ciò che, nella vita concreta, con ogni evidenza, li rende differenti, e deve così spiegare che tali differenze non sono altro che aspetti secondari, sostanzialmente insignificanti. Gli uomini, ci dice, possono benissimo essere differenti in apparenza, anche se poi in realtà sono tutti uguali. Essenza ed esistenza sono in questo modo separate, come lo sono anima e corpo, spirito e materia, e come lo sono anche i diritti (fondati sulle caratteristiche della “natura umana”) e i doveri (che si esercitano solo all’interno di una relazione sociale, quindi in un contesto ben preciso). L’esistenza concreta non sarebbe così che una maschera che impedirebbe di vedere l’essenziale. Se ne deduce che l’ideologia dell’Identico non è nemmeno unitaria nei suoi presupposti. Erede del mito platonico della caverna e della distinzione teologica tra l’essere creato e quello non creato, ha una struttura ed un’ispirazione dualiste, nel senso che non può sostenere la prospettiva dell’Identico se non appoggiandosi su qualcosa che è estraneo alla diversità o su qualcosa che la trascende.

Per sradicare la diversità, per ricondurre l’umanità all’unità politica e sociale, l’ideologia dell’Identico fa spesso appello, nelle sue formulazioni profane, alle teorie che vedono nella sovrastruttura sociale, nelle conseguenze della dominazione, nell’influenza dell’educazione o dell’ambiente, la causa di queste distinzioni, che vede come un male provvisorio. La fonte del male sociale è così posta all’esterno dell’uomo, come se l’esterno non fosse altro che il prodotto e il prolungamento dell’interno. Modificando le cause esterne, si potrebbe così trasformare il foro interno dell’uomo, oppure addirittura far emergere la sua vera “natura”. Per riuscirci si farà ricorso sia a metodi autoritari e coercitivi, sia a condizionamenti o contro-condizionamenti sociali, sia al “dialogo” e all’“appello alla ragione”, senza d’altra parte ottenere più risultati in un caso che nell’altro – il fallimento essendo poi sempre attribuito non già ad un errore nelle ipotesi di partenza, ma al carattere ancora insufficiente dei mezzi impiegati. L’idea sottostante è quella di una società pacifica o perfetta, o almeno di una società che diventerebbe “giusta” se si facessero sparire tutte le variabili esterne che impediscono l’avvento dell’Identico.

L’ideologia dell’Identico è oggi ampiamente dominante. Si potrebbe addirittura dire che essa è sia la norma fondamentale da cui derivano tutte le altre, sia la norma unica di un’epoca senza norme che non ne vuole avere di altre. Ma essa ha anche una storia: è nata innanzitutto in ambito teologico, concretandosi in Occidente nell’idea cristiana secondo cui tutti gli uomini, al di là delle loro caratteristiche individuali, al di là del contesto particolare della loro esistenza individuale, sono titolari di un’anima in analoga relazione con Dio. Tutti gli uomini sono per natura e dignità uguali essendo stati creati ad immagine del Dio unico. Il corollario, che è stato ampiamente sviluppato da sant’Agostino, è quello di un’umanità fondamentalmente una, le componenti della quale sarebbero tutte chiamate a svilupparsi nella stessa direzione, realizzando tra di loro una convergenza sempre più grande. Si tratta della radice cristiana dell’idea di progresso. Divenuta terrena attraverso il lento processo di secolarizzazione, quest’idea darà vita all’idea di una ragione comune a tutti – «una e intera in ciascuno», dirà Cartesio – alla quale ogni uomo parteciperebbe in ragione della sua umanità.

Non ho chiaramente il tempo di esaminare ora il modo in cui l’ideologia dell’Identico ha generato in seno alla cultura occidentale tutte le strategie normative/repressive che Michel Foucault ha descritto in modo esaustivo. Ricorderò soltanto che lo Stato-nazione, nel corso del suo percorso storico, si è preoccupato più di assimilare che di integrare, prefiggendosi di ridurre le differenze uniformando la società globale. Questa tendenza è stata continuata e accelerata dalla Rivoluzione del 1789 che, fedele allo spirito geometrico, ha decretato la soppressione di tutti quei corpi intermedi che l’Ancien Régime aveva lasciato sopravvivere.

Da allora ciò che interessa è solo l’umanità e, analogamente, una cittadinanza il cui esercizio è concepito come partecipazione all’universalità della cosa pubblica. Gli Ebrei diventano dei “cittadini come gli altri”, le donne “degli uomini come gli altri”. Ciò che li caratterizza individualmente, l’appartenenza a un sesso o a un popolo, viene considerato inesistente o viene nascosto confinandolo nella sfera privata. Le grandi ideologie moderne si adeguano così ad un ideale di instaurazione o restaurazione dell’unità generale. Sogneranno così l’unificazione del mondo da parte del mercato o una società “omogenea” scevra da ogni negatività sociale “straniera”, oppure, ancora, un’umanità riconciliata con se stessa che ha infine ritrovato la sua essenza. L’ideale politico sarà l’eliminazione progressiva delle frontiere che separano arbitrariamente gli uomini: ci si dirà “cittadini del mondo”, come se il “mondo” fosse – o potesse essere – un’entità politica.

Con la modernità, come tutti sanno, questa tendenza all’omogeneo è stata portata all’estremo nelle società totalitarie e da parte di un potere centrale che si reputa l’unica fonte di legittimità possibile. Nelle società postmoderne occidentali, lo stesso risultato si ottiene con la mercificazione del mondo, processo più mite, certo, ma non per questo meno efficace, visto che il grado di omogeneità delle società occidentali attuali supera ampiamente quello delle società totalitarie del secolo scorso. Al giorno d’oggi quest’ideologia dell’Identico si sta diffondendo in ogni ambito. Da essa deriva lo sradicamento progressivo delle specificità culturali e degli stili di vita diversi; essa è all’origine della confusione crescente dei ruoli sociali maschili-femminili, così come è all’origine di un’immigrazione di massa incontrollata, che porta con sé ogni giorno gravissime patologie sociali. È essa, infine, che ritroviamo nell’avvento della nuova religione dei diritti dell’uomo, che pretende di sottomettere la Terra intera ai suoi diktats giuridici e morali.

L’antropologia culturale del XX secolo si era fondata su un presupposto relativista, ovvero la convinzione che le idee, i valori e i comportamenti caratteristici di ogni popolo o cultura non possono essere capiti ed apprezzati che nel contesto di tale popolo o cultura. Questo presupposto, che scaturiva in parte dalle rappresentazioni organiciste della filosofia politica romantica del secolo scorso, è anch’esso al giorno d’oggi sempre più dimenticato in nome di questa ideologia dei diritti dell’uomo, che pretende di educare il mondo intero sottomettendo tutte le culture agli stessi valori fondamentali, che non sono niente altro che i valori specifici di una cultura particolare.   Sotto le sembianze della generosità, un nuovo imperialismo ha quindi inizio, poiché coloro che cercano di cancellare dappertutto le differenze cercano in realtà di far assomigliare tutte le culture alla loro. È una legge che si è ripetuta dappertutto nella storia.

L’ideologia dell’Identico è inoltre perfettamente contraddittoria. Nel momento stesso in cui si dice unificatrice, sancisce uno strappo insuperabile tra l’umanità e il resto dei viventi, mentre all’interno delle società umane, a causa dei suoi principi individualisti, provoca una disgregazione sempre maggiore delle strutture del vivere comune. L’obiettivo universalista è infatti sempre legato all’individualismo, non potendo tale ideologia porre l’umanità come fondamentalmente una se non concependola come composta di atomi individuali, visti nel modo più astratto possibile, ovvero al di fuori di ogni contesto e mediazione. È questo il motivo per cui essa mira a far sparire tutto ciò che si frappone tra l’individuo e l’umanità: culture popolari, comunità vive, corpi intermediari, stili di vita diversi.

L’ideologia dell’Identico si diffonde eliminando le differenze, ma eliminando contemporaneamente anche ciò che le tiene insieme, ovvero le strutture flessibili in seno alle quali le differenze s’iscrivono, che sono anch’esse diverse. Prendendo di mira differenze che sono sempre organicamente ordinate, essa suscita nello stesso tempo l’atomizzazione e la divisione. In mancanza di una cornice che lo racchiuda, la febbre dell’Uno porta alla dissoluzione del legame sociale. Quest’aumento dell’individualismo, di cui si felicitano i liberali, ha portato inoltre all’avvento dello Stato-Provvidenza, di cui invece si lamentano. È una constatazione paradossale, che è però la conseguenza di una logica perfetta. Più le strutture comunitarie crollavano, più lo Stato doveva prendersi carico della domanda di solidarietà degli individui. Viceversa, più garantiva loro sicurezza, più li dispensava «dall’intrattenere relazioni familiari o comunitarie che costituivano in precedenza protezioni indispensabili».  Movimento dialettico e circolo vizioso: da una parte la società differenziata si sfalda, dall’altra lo Stato omogeneizzante avanza con la stessa rapidità dell’individualismo. Più individui isolati ci sono, più lo Stato può trattarli uniformemente.

Concorrenti ed opposte tra di loro, le grandi ideologie moderne, affrontandosi, hanno accentuato le divisioni e le separazioni prodotte dalla diffusione dell’individualismo. Questo risultato, anch’esso paradossale, non ha fatto che stimolarle nella loro ambizione: di fronte allo spettro dell’“anarchia” e della “dissoluzione sociale”, della lotta di classe, della guerra civile o dell’anomia sociale, esse non hanno fatto altro che sostenere più intensamente ancora l’allineamento nel presente e il livellamento nel futuro. Il problema è che l’ideologia dell’Identico non può che esigere la radicale esclusione di ciò che non può essere ridotto all’Identico. La diversità irriducibile diventa così il principale nemico che bisogna sradicare ad ogni costo. È la molla di ogni ideologia totalitaria: bisogna eliminare questi “uomini di troppo” che ostacolano con la loro stessa esistenza l’avvento di una società omogenea o di un mondo unificato. Chi parla in nome dell’“umanità” mette inevitabilmente i suoi avversari fuori dall’umanità.

Allo stesso modo, i difensori dell’ideologia dell’Identico presentano spesso il pensiero della differenza come sinonimo di pensiero dell’esclusione, contrapponendogli l’idea che il rispetto dell’Altro è proporzionale al grado di similitudine. L’affermazione dell’uguaglianza sarebbe in questo modo non solamente indissociabile dalla negazione della differenza, ma la conseguenza stessa di questa negazione. Ma in realtà è vero il contrario. Prova ne è, innanzitutto, che tutte le dittature hanno cercato l’omogeneità e l’uniformità; in secondo luogo il pensiero dell’in-differenza, della similitudine, lungi dal favorire il riavvicinamento, la comprensione e l’armonia, non smette di sfociare in altre forme di concorrenza sociale e di ostilità generalizzata. Non solamente la differenza ritorna sempre, non essendoci due soli esseri viventi che siano in tutto e per tutto identici, ma ritorna con tanta più forza quanto più cerchiamo di sopprimerla.

Ostile alla differenza, l’ideologia dell’Identico conduce inevitabilmente all’indifferenziazione. Ora, l’indifferenziazione è sempre un segnale di disintegrazione sociale, e tale disintegrazione non può che produrre a sua volta comportamenti aggressivi ed ostili. Gli uomini, infatti, hanno paura dell’Identico almeno quanta ne hanno dell’Altro, se non di più. Le ideologie dominanti credono in modo ecumenico che l’omogeneizzazione del mondo non potrebbe portare che alla pace poiché permetterebbe una migliore “comprensione”. Ma ci accorgiamo ben presto che, al contrario, tale omogeneizzazione suscita conflitti identitarî, risveglia irredentismi secolari e genera nazionalismi spasmodici. All’interno stesso delle società, l’ideologia dell’Identico generalizza la rivalità mimetica descritta ottimamente da René Girard, esacerbando il desiderio di distinguersi con tanta più forza quanto più proibisce la distinzione, e questo è il motivo per cui si può dire che intimamente l’Identico fomenta la guerra. Nella migliore delle ipotesi generalizza l’indifferenza e la noia. Nella peggiore, porta a reazioni violente e allo scatenarsi delle passioni.

                                                   La mondializzazione

L’ideologia dell’Identico si materializza al giorno d’oggi sotto i nostri occhi nel fenomeno della mondializzazione. Abbiamo già avuto l’occasione di parlarne qualche anno fa,  ma sentiamo il bisogno di ritornarci, poiché la mondializzazione – detta anche globalizzazione – costituisce ormai, che lo si voglia o meno, lo sfondo della nostra storia presente. Resa possibile dal crollo del sistema sovietico e dal rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica, la mondializzazione rappresenta un processo di unificazione progressiva della Terra. Ma non si tratta di un’unificazione qualunque. Quella che si realizza sotto i nostri occhi opera all’interno della logica del capitale e dell’ideologia del mercato. In altri termini, la Terra tende ad unificarsi sotto forma di un grande mercato. Il mercato è per definizione il luogo in cui le differenze sono neutralizzate, attraverso la riduzione a più o meno grandi quantità di quell’equivalente universale che è il denaro. Il mercato trasforma tutto in merce, mentre, al contrario, ciò che non può essere trasformato in merce sfugge al mercato. Con la mondializzazione i paesi sviluppati passano dalla società con mercato alla società di mercato. Ciò significa che interi frammenti della vita umana che in precedenza erano fuori controllo, a partire dalle produzioni artistiche e culturali, sono ormai inclusi nel mercato, mentre, parallelamente, il modello di mercato si interiorizza nelle coscienze, portando poco a poco con sé una reificazione generalizzata dei rapporti sociali.

È chiaro che non è la sinistra “cosmopolita” ad aver portato a compimento la mondializzazione, essendo questa piuttosto opera della destra liberale. È quest’ultima ad aver facilitato e poi accompagnato il compimento della tendenza secolare del capitalismo a diffondersi sempre di più – non avendo il mercato altri limiti che se stesso. Il capitalismo si è così rivelato più efficace del comunismo nell’abbattere le frontiere, mettendo di fronte a una dolorosa alternativa coloro che lo combattevano ieri in nome di un ideale internazionalista.

Le conseguenze di questa mondializzazione commerciale senza regole, senza controllo e direzione, di questa macchina che avanza sola travolgendo tutto al suo passaggio, sono ben note. Si tratta innanzitutto della tendenza all’omogeneizzazione planetaria, all’uniformazione degli stili di vita e dei comportamenti tramite una generalizzazione di un modello antropologico che riporta l’uomo alla sua dimensione di produttore-consumatore.

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Alain de Benoist

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