È successo, dicevo, che nell’Irlanda del Nord è uscito al cinema il documentario “66 giorni” che ripercorre tutte le fasi della drammatica protesta degli Hunger Strikers, nel settore H del carcere di massima sicurezza di Long Kesh. È un film che racconta la storia di Bobby Sands e degli altri detenuti che smisero di mangiare per rinfacciare al governo inglese il trattamento disumano cui erano sottoposti. Fin qui, si dirà, nulla di strano e nemmeno di chissà quanto eccezionale. E invece no, perché durante la prima settimana di proiezione, “Bobby Sands: 66 giorni” ha battuto al botteghino film pompatissimi come Ghost Busters e Star Trek, due operazioni nostalgia su scala planetaria che puntano a scucire qualche spicciolo ai cinefili irriducibili e (d’estate) sfaccendati.
Il documentario, diretto da Brendan Byrne, non l’abbiamo (ancora) visto. La speranza che arrivi in Italia forse non è malriposta ma nemmeno così vivida. Parliamo non di un film, dunque, ma di come – anche al cinema luogo magico eppure popolato da tantissimi stregoni, troppo ligi ai padroni di vapore – i simboli, quelli veri che non possono morire mai perché vivono in eterno (sul serio, però, non tanto per dire) possano aver ragione sulle logiche commerciali. Ed è una lezione che vogliamo leggere nell’auditorium di quelli che si vergognano, di quelli che scelgono le scorciatoie facili, di quelli che al peso di una lotta preferiscono i fasti delle poltrone in pelle umana.
Ci piacerebbe dirlo in uno di quei pompati seminari di aspiranti maturandi, debuttanti al gran ballo, arrivisti e pescecani, dove abbiamo dovuto abbozzare quando alla fiamma limpida di una storia di libertà hanno voluto sostituire il fuoco di zolfo di un sabba di troppe streghe servili e sguaiate. In fondo, però, rimuginare non serve più a niente. E, anzi, cambierà tutto solo quando si smetterà di rosicchiare rancore e smandrappare passato, urlare alla luna e stirare folklore.
Gli accidenti della storia passano, per quanto opprimenti e pesanti: non c’è asfalto talmente forte da impedire ai fiori di crescere. E ai simboli, agli eroi, di continuare a tracciare la (retta) via.