Musica. Asfittica difesa: pura e maledetta Amy Winehouse

amy winehouseA di Amy. Alla A Rimbaud il maudìt  associa il colore nero. E una delle Moire  o una Norna delle terre di Albione ha intrecciato con fili neri l’arazzo del destino di Amy Winehouse. Nero. Black. Black come le tre ottave della sua voce, capace di modulare i suoni soul e jazz con i ritmi moderni in un miscuglio che Teresa Wilz definì “umano e divino insieme”. Black come la piramide delle sue acconciature da leonessa, la curva lunga delle sue ciglia, le sfumature del suo corpo vestito di neri tatuaggi e delle nere sue creazioni. Black o Blake: l’amore malato, totale, letale. Amy sposa Blake Fildier-Civil in Florida: il matrimonio dura solo due anni ed è un amore maledetto. Vivono, Amy e  Blake, dentro un’asfissia sentimentale, equilibristi squilibrati sul filo dell’eccesso: la droga, l’alcool, la bulimia, l’anoressia, i pugni, le ferite.  Le ossessioni del corpo e del cuore che non hanno quiete mentre le luci dei teatri, degli stadi, dei palcoscenici rincorrono la ragazza del Middlesex cresciuta troppo in fretta per eccesso di genio. “Un rogo combusto fino in fondo” il nero di kandisky è la vita di Amy. Sprofonda nel buio il 23 luglio di cinque anni fa. Il buio black della morte se risucchia quel suo esile corpo intossicato e affannato, non concede il nero silenzio all’icona Winehouse. In soli ventisette anni Amy ha afferrato tutto e si è  addolorata di tutto. Confessava di “non essere del tutto a posto” dentro un’esistenza a vasi comunicanti da riempire di tenerezza ed  intanto quei vasi traboccavano di violenza, di vuoti, di frenesia maledetta. Gli artisti si crogiolano nel maledettismo per narcisismo o per frustrazione. Amy è  maledetta per difesa.

Si sarebbe difesa dalle indagini sulla sua morte, dalla ridda di ipotesi, dai neri avvoltoi, che planano sul suo corpo nero spento, per ricavarne luce, per continuare la narrazione? Forse no. Forse nemmeno dal libro di mosmie Giorgette Civile “Amy e Blake” (il titolo originale è  “Letting Blake go”) per Cheninsky Editore che uscirà in Italia a metà luglio dopo grande successo in Inghilterra. La suocera, mosmie come affettuosamente la chiamava Amy, mostra i brandelli ormai esangui di un amore folle, scava dentro le ragioni irragionevoli di due tossici, autolesionisti e tristi. E nello specchio sbreccato di Amy forse cerca l’immagine sana di se stessa. Forse. Quello che resta sui resti dei divi del Club 27 (cinica formula che accomuna le ventisettenni morti di Jim Morrison , Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Kobain) è una luce fredda e tagliente, un vocìo inutile e vischioso che nega la pietà.

Aggressiva e sfrontata, scandalosa e provocatoria Amy Winehouse  è  stata una diva per aver costruito mentre viveva il suo tramonto: Amy ha vissuto in un perenne tramonto. Qui, nell’essere anche il nero colore puro, risiede la sua purezza.  Nel concedersi agli eccessi come imprescindibile paradigma di vita. Nel costruirsi un’iconografia negli intervalli delle sbronze e delle sniffate. Ribelle persino nella purezza del suo dolore pazzo dell’amore.  A chi l’ha amata nell’unico modo dovuto, ascoltando la sua musica, va questa canzone.

A Giorgette e a tutte le  mosmie che dopo di lei saranno lì ad annerire il buio di Amy i versi di Edgard Lee Master per la tomba di Serepta Manson a Spoon River

Il fiore della mia vita/sarebbe sbocciato d’ogni lato/se un vento crudele non avesse appassito/i miei petali dal lato che vedete voi del villaggio/Dalla polvere levo la mia protesta:/ il mio lato in fiore voi non lo vedeste!….”

@barbadilloit

 

Daniela Sessa

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