Politica. Giano Accame: “Msi, partecipazione e socializzazione”

Giano Accame
Giano Accame

Pubblichiamo una lunga intervista di Giano Accame su un tema caro ai lettori di Barbadillo, la partecipazione dei lavoratori e la socializzazione nelle politiche del Msi

Potrebbe darmi una descrizione ed un giudizio sintetico, di tre o quattro righe, della socializzazione. La approfondiremo più avanti nell’intervista, ma serve per sottolineare da subito quali siano i caratteri per lei davvero importanti di quell’esperienza, quelli che rimangono in sintesi appunto. 

Credo che subito abbia più impressionato la prospettiva della partecipazione agli utili, mentre l’aspetto di gran lunga più importante è quello della partecipazione alla gestione, dove i rappresentanti dei lavoratori portano concezioni di medio-lungo periodo (importante per loro è la conservazione del posto) contro le visioni a breve di una parte dell’azionariato (gestori di fondi d’investimento, che spostano continuamente le puntate sui titoli per ricavarne utili immediati).

L’esperienza della socializzazione è a suo dire un patrimonio condiviso da tutta la c.d. “Area”, quella parte politica che si ritiene erede/prosecutrice/estimatrice del Ventennio? Sarebbe interessante, se se la sentisse, distinguere tra l’eredità come “immaginario” e l’eredità come “posizione politica”. Quanti cioè la portano “nel cuore” di militanti come uno splendido passato, ma appunto passato, e quanti invece la ripropongono in chiave presente e futura. 

Il Movimento sociale ha presentato quasi in ogni legislatura progetti partecipativi che si richiamavano tanto all’art. 46 della Costituzione, quanto appunto alla socializzazione della RSI. Allo stesso modo la Cisnal ha sempre sostenuto quella soluzione. Andrebbe sentito se non troppo vecchio Gianni Roberti a Napoli, che è stato al tempo stesso Segretario generale della Cisnal e presidente del gruppo parlamentare missino. Ma presso l’UGL si può ancora interpellare Nazareno Mollicone, un intellettuale e sindacalista di valore, che ne è un po’ la memoria storica.

Per quanto riguarda il ventennio penso valga per tutti l’atteggiamento fissato sin dal 1947 dal Movimento sociale: non rinnegare e non restaurare. Nessuno ha più ritenuto ripetibile quell’esperienza. Col ricambio delle generazioni è oltre tutto cresciuta la tendenza a scaricare i pesi del passato. Un passato che un tempo rendeva due milioni di 103

voti e stando all’opposizione non presentava dei costi. Oggi al governo rende meno (le madri dei caduti sono tutte morte, anche i reduci se ne vanno) e l’accusa di fascismo costa di più. La fedeltà storica è in via d’esaurimento. La nuova classe politica (anche a sinistra) scarica i nonni in corsia e i vecchi cani in autostrada per imboccare più liberamente la via verso le vacanze dalla storia del secolo scorso.

A suo dire questa eredità come si è trasmessa? Più in forma scritta o in forma orale? Più per immagini e suggestioni o attraverso analisi e ricerche? 

Direi principalmente in forma orale. Per tradizione familiare e conversazioni in sezione.

Nel mio lavoro io parto sostenendo l’idea che la socializzazione, più che come progetto politico, sia passato come “mito” nella c.d. “Destra Radicale”. Tradotto: questa è più il “sogno” di uno stupendo passato, che un ‘obbiettivo per il presente o per il futuro. Più, ricollegandomi alla domanda prima, una suggestione che un progetto. Quanto concorda con questa chiave di lettura e quanto invece è riduttiva? 

No, il progetto partecipativo è oggi ancora più realizzabile in quanto coincide con l’art.46 tuttora inattuato della Costituzione, con una Quinta direttiva europea e con la dottrina sociale della Chiesa. Ricordo che negli anni Cinquanta ci furono scontri nel Msi tra Roberti, che proponeva per cominciare l’immediata socializzazione delle imprese IRI, e il mio maestro Carlo Costamagna, contrario alla socializzazione in un periodo in cui le masse operaie erano fortemente influenzate dal PCI e dalla CGIL, portatori di un progetto radicalmente alternativo. Alla base della socializzazione c’è un’idea sociale e nazionale collaborativa, che non si poteva realizzare in un clima acceso di lotta di classe.

Per concludere questa parte molto generale, se mi dovesse consigliare due testi, qualsiasi, su questa esperienza, quali sceglierebbe? 

Ripeto: sarà utilissimo il volume Repubblica sociale che riproduce la rivista del 1944. Per altri testi mi lasci pensare. 104

Seppure non direttamente, la socializzazione intesa come partecipazione dei lavoratori fu ripresa dall’MSI nei suoi primi Dieci Punti Programmatici. Perché questa scelta di non rivendicarla apertamente? Era una tattica, dovuta al periodo, o era proprio un abbandono strategico? 

Si ripeteva il concetto. E’ sempre stata rivendicata anche con la presentazione di progetti di legge alla Camera. Persino da AN.

E’ vero, come qualcuno scrive, che furono soprattutto i reduci a farsi difensori e promotori di questa esperienza? 

Si, certo. Le sezioni missine erano piene di reduci e di ragazzi che non avevano “fatto in tempo a perdere la guerra”. La socializzazione rientrava insieme

a tanti altri motivi, soprattutto combattentistici e per Trieste italiana, nell’immaginario dei primi tempi missini.

Quale era la posizione ufficiale del MSI al riguardo della socializzazione alla sua nascita? Intendo sia la posizione sul fatto storico che su una sua eventuale riproposizione. 

Ne ho già accennato prima. Ci sono anche siti in internet di reduci della Rsi che vedrò di segnalarle. Ma provi lei stesso a cercare su Google socializzazione e Repubblica Sociale o Beppe Niccolai ecc.

Quale era invece la posizione non ufficiale. I militanti e gli intellettuali vicino all’MSI come si ponevano riguardo alla socializzazione? 

Vanno ricordati il prof. Ernesto Massi, introduttore della geopolitica in Italia che poi diventò a livello universitario un luminare della geografia economica, vice segretario 105

nazionale del primo Msi e acceso socializzatore, col prof. Manlio Serventi (a sua volta docente universitario di giurisprudenza) con Gianni Roberti (docente a Napoli di diritto del lavoro). Ma andrebbero cercati anche i libri di Diano Brocchi, sindacalista della Cisnal.

Nei primi tempi l’MSI sembrò volersi collocare effettivamente in una posizione che non era “né di destra, né di sinistra”. In particolare Rivolta Ideale supportò questa tesi, e Tonelli scrisse anche un articolo dove rivendicava la posizione dell’MSI come forza di sinistra nazionale. Che cosa successe a suo dire? Perché questa posizione non trionfò, nonostante fosse maggioritaria inizialmente? 

Poi ci furono delle scissioni della sinistra missina. con Ernesto Massi e proprio a Torino con il colonnello Massimo Invrea, che pubblicava se ben ricordo “La prima Fiamma”. Ma sono ormai tutti morti.Può chiederne a Roma a Giorgio Vitangeli direttore del mensile Finanza Italiana, che ne fece parte. E’ anche autore di un recente libro intervista molto efficace, “Dove va la Finanza?” (Settimo Sigillo) con Luigi Tedeschi, direttore della rivista “Italicum”, da cercare: sono proprio gli eredi della sinistra missina.

E’ giusto dire che la diatriba tra la “destra” e la “sinistra” del MSI riproponeva un po’ la divisione tra fascismo regime e fascismo movimento? 

Si. La partecipazione era nel primo programma fascista, che recepiva un programma futurista. Le consiglierei per questi precedenti del 1918 un opuscolo che ho curato io, L’idea partecipativa di Filippo Carli (Settimo Sigillo 2003). Carli era un economista e sociologo molto interessante, padre di Guido Carli.

Sappiamo che la socializzazione fu una esperienza (per alcuni incompiuta, per altri mai realmente iniziata) dell’Italia Settentrionale. Vista che seppure non diretto, il richiamo ad essa era in qualche modo presente, uno si sarebbe potuto aspettare un maggiore consenso per l’MSI proprio nel Nord. In quello stesso Nord dove tralaltro ebbe origine il fascismo in Italia. Tuttavia alle elezioni del 1948 l’MSI al Nord non sfondò, conformandosi come un partito più forte al Sud, tanto da far fatica a superare l’1% a Milano. Perché questo?

L’esperimento fu tentato per pochi mesi in piena guerra civile. L’applicazione fu limitata. Erano altre le attese, le paure, le preoccupazioni. Nel ’48 prevaleva al Nord la paura del comunismo, molti votarono per la diga democristiana.

Quanto questo radicamento elettorale nel meridione giocò nella “moderazione” delle posizioni missine? E con che tempi si “consumò” questa trasformazione? 

Sì, è possibile che dal Mezzogiorno, dove il Msi era alleato con i monarchici, siano venute spinte più conservatrici.

Quanto la questione sociale nell’MSI era importante? E quanto secondo venne frenata dall’anticomunismo e dalla contrapposizione al PCI? 

Ho già risposto: era ragionevole temere che rappresentanti dei lavoratori espressi dal Pci sarebbero entrati negli organi delle imprese socializzate più per far saltare il sistema che per renderlo più giusto e più funzionale.

10. Con De Marsanich si può in parte parlare di una definitiva affermazione dell’ala “destra” del partito. Quali furono le caratteristiche della segreteria sua e di Michelini per quanto attiene il tema della socializzazione e più in generale dei rapporti tra capitale e lavoro? Quanto questa posizione venne condivisa dalla base militante e se una condivisione non vi era perché non si arrivò mai a scissioni profonde? 

Ne ho già accennato. Ci furono scissioni.

Almirante era inizialmente un “socializzatore”, tuttavia quando venne eletto segretario dopo Michelini aveva già superato questa posizione. Come giudica questo cambiamento e come veniva visto dai missini dell’epoca? 

No, sono posizioni troppo schematiche. Certo venne cercato all’epoca anche un appoggio dalla Confindustria. Ma, ripeto, progetti partecipativi sono stati presentati alla Camera anche da AN.

Il tema della socializzazione fu inizialmente presente nella pubblicistica missina e non solo. Ho citato Rivolta Ideale, ma anche l’Orologio, Meridiano d’Italia, Pensiero Nazionale ripresero la tematica. Vi fu un progressivo abbandono? E perché? 

“Pensiero Nazionale” aveva un progetto diverso: quello di portare gli ex fascisti nel Pci. Più che abbandono vi fu una sorta di riproposizione rituale della socializzazione, che non trovava appoggi in nessun altro settore politico.

Ricorda articoli, inchieste o approfondimenti storici al riguardo fatti dal “Secolo d’Italia” oltre ai richiami di Niccolai? 

Devo pensarci. Mi lasci tempo.

Perché si tentò di realizzare la socializzazione solo così tardi? Per lasciare “mine sociali”, per propaganda o per realizzare invece il sogno mussoliniano, una sorta di canto del cigno di un ex socialista? 

C’era l’idea di riprendere i vecchi programmi del ’19. Ma già l’anno prima (nel 43) il ministro Cianetti aveva rilanciato progetti partecipativi. L’idea aveva attraversato come un fiume carsico i compromessi di regime.

In che modo si è collocata come esperienza e progettualità rispetto al capitalismo? 

All’epoca il capitalismo aveva abbandonato il fascismo. L’umore era ostile. La socializzazione poteva avere aspetti anche vendicativi

E rispetto al socialismo reale? 

La visione era completamente diversa, alternativa e a nostro giudizio fallimentare. Credo che nessuno nemmeno a sinistra oggi si faccia ancora un mito del paradiso del proletariato, anche se il doloroso passaggio a un capitalismo selvaggio mantiene nell’Europa orientale forti correnti di nostalgia. Anche lì per molti “si stava meglio quando si stava peggio”.

Quanto collidono Stato Organico e Stato Nazionale del Lavoro come progetti politici? Sono sinonimi o presentano delle diversità? 

Lo Stato Nazionale del Lavoro ne è uno sviluppo. Non ci può essere una concezione organicistica della società e dello Stato che non comprenda il lavoro.

Dopo il decreto nella RSI ci sono stati altri esempi nel mondo simili o almeno paragonabili ad esso? Penso a possibili somiglianze con alcuni aspetti del capitalismo renano o con l’importanza della CGT nel regime peronista. 

E’ vero. Anche se la Mittbestimmung venne inizialmente imposta dagli angloamericani come soluzione punitiva per il capitalismo tedesco a suo tempo troppo collaborativo con Hitler. Ma il sistema delle imprese in Germania se ne è poi avvantaggiato, risolvendo all’origine molti motivi conflittuali.

Crede nella possibilità reale e concreta di riportare il tema ai giorni nostri? Sarebbe ancora di attualità o invece il modello sociale attuale, il capitalismo, ha vinto? 

No, se ne riparla. Il capitalismo ha al tempo stesso stravinto ed è in crisi. Anche la Cisl mi pare vicina a riscoprire l’art. 46.

Quali sarebbero i passi a suo dire da fare per un gruppo politico che mirasse ad essa? 

Non saprei. Le mie riserve di fiducia a ottant’anni si sono quasi esaurite.  

Lei è un deciso sostenitore, ancora adesso, dell’idea della partecipazione.

Dell’idea di partecipazione, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, la scomparsa del Partito Comunista e dell’Unione Sovietica, perché per un certo periodo avevo raccolto le perplessità di quello che è stato il mio maestro, Carlo Costamagna, che è il giurista che materialmente scrisse la Carta del Lavoro, il quale sosteneva che era rischioso far entrare nei Consigli di Amministrazione dei rappresentanti dei lavoratori, che non avrebbero collaborato allo sviluppo dell’impresa, ma soltanto avrebbero puntato a rovesciare il sistema, insomma. In un periodo in cui, la maggioranza operaia era controllata dalla CGIL e dal Partito Comunista, che sosteneva una visione completamente alternativa. Oggi esistono tutte le condizioni, non si vede altro sistema che questo, insomma. A breve termine non esistono formule sostitutive di questo sistema e quindi la possibilità di una effettiva collaborazione per lo sviluppo dell’impresa, nell’interesse comune, adesso esiste. Voglio dire anche una cosa: che allora, da ragazzo, quando fu annunciata la socializzazione di un’altra Repubblica Sociale, l’aspetto che subito più mi colpiva è e su cui più si parlava all’epoca, era quello della partecipazione agli utili, così come gli azionisti anche chi ci metteva la vita, il lavoro, aveva il diritto di partecipare agli utili. Col passare del tempo mi sono reso conto che non era la cosa più importante la partecipazione agli utili, diviso per migliaia di lavoratori si tratta di spiccioli, mentre la cosa veramente importante è la partecipazione alla definizione delle strategie e delle politiche aziendali. Intanto, perché evita quel fenomeno tipicamente americano che premia i manager tagliatori di teste. Con i rappresentanti dei lavoratori, anche quando si liberano forze di lavoro per la razionalizzazione dei sistemi si cercherà sempre di recuperarle, di riattivarle in altre iniziative, di non metterle in mezzo alla strada. Ma soprattutto, in questo periodo, dove sul mercato azionario intervengono fondi di investimento e che puntano a spostare ogni giorno le puntate per ottenere risultati immediati, il rischio che corre e che viene denunciato sempre più in America, dove possibili fenomeni sono un po’ anticipati, è che appunto la richiesta di utili immediati che viene dal mercato azionario faccia perdere alle imprese la visione strategia di medio-lungo periodo, cosa che verrebbe invece riportata dai rappresentanti dei lavoratori, i quali come primo obiettivo hanno la conservazione del posto, possibilmente trasmetterlo ai figli addirittura, insomma. Quindi una visione di lungo periodo dell’impresa viene rafforzata, insieme ai grandi azionisti quindi, che seguono l’azienda non con degli interventi mordi e fuggi. I rappresentanti dei lavoratori darebbero all’impresa questa visione di medio-lungo termine.

Secondo lei, sarebbe una via d’uscita anche dalla crisi attuale?

Per uscire dalla crisi attuale bisogna riordinare il sistema finanziario internazionale. La crisi attuale non è crisi d’impresa, non è crisi di economia reale. E’ una crisi dell’economia finanziaria, gonfiata dalle eccezioni, da una speculazione orrenda, gonfiata dal fatto che gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo, che campa ormai da sessant’anni, si fa pagare il costo delle liberazioni, campa a sbafo alle spalle del genere umano, insomma. Col dollaro che è stato sollevato nel Ferragosto del 1971 da Nixon dalla conversione in oro, quindi non ha più nessuna base reale. Dollari che vengono spesi in giro per il mondo e non tornano indietro a ricomprare in America, perché quei dollari che gli americani spendono in Italia, noi non andiamo a comprare le cose in America, ma il petrolio dagli sceicchi, i quali a loro volta controllano immobili italiani in Brianza. Insomma, questi pezzetti di carta o impulsi elettronici ce li scambiamo noi, ma non tornano mai indietro. Quindi, il problema è di un artificio introdotto proprio dagli Stati Uniti, dal dollaro. Ma invece, per avere un assetto imprenditoriale più sano, la partecipazione dei lavoratori certamente è positiva. Ricorderò l’esempio tedesco. In Germania era stato imposto dagli angloamericani come misura punitiva per il capitalismo tedesco che aveva collaborato molto con Hitler. Però, la formula ha giovato e non nuociuto al sistema tedesco dell’impresa, perché ha risolto tutta una serie di motivi di conflittualità all’origine, insomma. In questi Consigli di Sorveglianza, dove sono rappresentati i lavoratori in Germania, tanti problemi vengono risolti subito, quindi c’è una riduzione della conflittualità già all’origine. Il sistema giapponese non ha un sistema partecipativo come quello europeo, però ha una logica partecipativa e anche, non a caso, Germania e Giappone sono i due paesi che nella gara che si è instaurata dopo la Seconda Guerra Mondiale sono andati più avanti, insomma. La logica partecipativa ha giovato ai sistemi. Aggiungerò che la partecipazione del modello renano tedesco è anche raccomandata da una direttiva europea ed appartiene alla dottrina sociale della chiesa, quindi insomma ci sono forze non certamente eversive che la raccomandano.

O eversive in un altro senso… E invece, passando ad un discorso più storico. Lei ha militato nell’MSI…

Sì, fino al 1956.

Come venne trattato l’argomento nel Movimento Sociale Italiano?

Bè, appunto. Ci furono contrasti. Comunque, sempre in ogni legislatura, veniva presentato, un po’ per onore di bandiera, anche sulla spinta della CISNAL, è stato sempre presentato alla Camera, un progetto di partecipazione. Inizialmente Gianni Romberti, che si trovò ad essere in un certo periodo capogruppo parlamentare del Movimento Sociale e Presidente della CISNAL, proponeva l’immediata introduzione della socializzazione di tutta l’impresa IRI, come avvio del sistema per poi estenderlo. Era, peraltro, ovvio che, nelle condizioni di isolamento in cui si trovava allora il Movimento Sociale, queste proposte di legge venivano presentate per onore di bandiera, ma senza nessuna realistica possibilità di vederle avviate nell’iter parlamentare ed approvate. Al tempo stesso, c’era una resistenza interna di destra ed ultradestra cui io, in origine, ho partecipato, con Carlo Costamagna. Un uomo subisce un po’ il fascino dei primi maestri che ha avuto. E Costamagna temeva che la partecipazione, in quel clima, con la forza operaia controllata da un sistema Marxista-leninista, da una logica Marxista-leninista, avrebbero usato la partecipazione come strumento per far saltare il sistema, non per renderlo più giusto, socialmente più equo. Comunque la prevalenza era filosocializzazione. Però, bisogna aggiungere con, ogni tanto, scissioni di sinistra missina, ad es. ci fu un grande economista, Ernesto Massi, che poi diventò quello che ha introdotto la geopolitica in Italia, è stato il primo professore di geopolitica e poi di geografia economia ed era vicesegretario del partito ed incarnava proprio l’anima più di sinistra, ad un certo punto uscì sbattendo la porta. Ci sono state scissioni a sinistra. A Torino c’era il colonnello Invrea, aveva anche una rivistina, “La Prima Fiamma”, non so se sia ancora reperibile da qualche parte a Torino, colonnello di artiglieria, che aveva fatto una scissione da sinistra nel Movimento Sociale.

Mi diceva che anche la CISNAL premeva molto.

Certo, anche quello naturalmente, era un’idea del tutto sterile, perché non c’erano possibilità di accordarsi con altre forze. Adesso nella CISNAL sono emerse idee di questo tipo. Tra l’UGL, la CISNAL e credo anche la UIL, credo che anche la CGIL non ha altre prospettive. Un tempo si poteva pensare che, introducendo sistemi partecipativi, si sarebbe un po’ raffreddato il bollore dei sentimenti della lotta di classe, ma ormai la lotta di classe non è più un obiettivo delle grandi forze politiche.

Parlando dal punto di vista più filosofico, l’idea di socializzazione si porta dietro anche un’idea diversa di società, oppure è solo un’idea di relazione economica, di gestione dell’impresa?

Naturalmente è un’idea della società, è l’umanesimo del lavoro, è l’idea dello Stato Nazionale del Lavoro. L’idea dell’umanesimo del lavoro era stata formulata da Giovanni Gentile nell’ultimo libro uscito postumo, Genesi e struttura della società. Anche quello andrebbe visto, bisognerebbe darci un’occhiata, per lo meno per le parti che si parla dell’umanesimo del lavoro. Ad es., il primo articolo, anche quello un po’ così platonico, della Costituzione Repubblicana, l’Italia è una democrazia fondata sul lavoro e ripeteva, in fondo, anche l’idea di Gentile della Repubblica Sociale Italiana, insomma. Nello Stato Nazionale dell’umanesimo, quello che si voleva realizzare, era la socializzazione, era vista come uno degli strumenti per realizzare l’umanesimo nel lavoro.

Quindi, si parla o no di società organica?

Società organica che non lo è necessariamente, se non in tempi di totalitarismo o dittature. C’è una visione individualistico-atomistica della società che nega che qualcosa sia al di sopra dell’individuo e invece una visione, secondo me più realistica, è fatta di passato, presente e futuro. Nella società sono ancora presenti i nostri morti e i figli che verranno e questa è un’idea un po’ mistica della società ed è appunto l’idea organica, la società va vista come un organismo vivente. Al servizio di questo organismo si doveva inserire anche la socializzazione.

Ci sono alcuni autori che io ho incontrato, che hanno visto nella socializzazione una specie di via italiana al socialismo che doveva riproporre quella che era un po’ la frattura tra Mazzini e Marx e quindi la socializzazione nascerebbe con il pensiero del lavoro di Mazzini per poi passare attraverso il sindacalismo rivoluzionario, attraverso il futurismo, i fasci…

Sì, direi che Marx non era all’epoca molto digerito ed accettato. E invece l’idea partecipativa era un’idea mazziniana, insomma. Capitale, lavoro nelle stesse mani ma che non doveva significare il lavoro nelle mani del capitale, insomma. Semmai il contrario. Il capitale nelle mani dei lavoratori.

Quindi lei concorda abbastanza con questa interpretazione di una vita italiana al socialismo?

Ma, al socialismo, sì, certo, un socialismo non marxista.

Se dovesse cominciare, lei con influenze un po’ anarchiche, un po’ marxiste, che la socializzazione non è una versione dolce del capitalismo, è una critica che molti a sinistra possono fare, diciamo.

E’ una critica legittima, appunto, nel momento in cui era ragionevole pensare e sognare un modello del tutto alternativo nella società. Quando questo modello alternativo non c’è più, allora bisogna rifluire su soluzioni più moderate, insomma. C’è Togliatti, nelle lezioni sul fascismo da Mosca, a un certo punto si occupa della ginnastica e invidia al fascismo il dopolavoro. Non so se l’ha letta. Tra l’altro con una visione un po’ torinese e borghese, che dice: in tutti i paesi del mezzogiorno, dove esisteva soltanto il circolo dei nobili, adesso esiste anche al dopolavoro la possibilità per il contadino, per l’operaio, di andarsi a bere un bicchiere di vino. Era questa l’idea che il proletario, appena c’ha due soldi e 5 minuti di tempo si va a sbronzare. Ma invidiava il dopolavoro e la ginnastica, lo sport, in cui il dopolavoro cercava di coinvolgere le masse operaie e diceva: è stato un errore del socialismo, all’inizio del secolo, di considerare troppo paternalistiche le iniziative sportive che spesso venivano proposte e finanziate dal patronato. La squadra di calcio aziendale, per creare un po’ di patriottismo aziendale. Ecco, c’era nel socialismo tra Ottocento e Primo Novecento, c’era il timore, l’avversione verso tutte le soluzioni di mezzo, che rendendo meno aspra la condizione del lavoratore, ne addormentava la voglia di lotta, insomma, lo spirito di battersi per la lotta di classe. Adesso, che appunto la lotta di classe non è considerata più un obiettivo realistico, che non è realistico il sogno di una società alternativa, per cui non esistono attualmente modelli, migliorare le condizioni di vita, i rapporti, non è più un tradimento, un ammorbidire, ma un creare condizioni di vita migliori, insomma. Contare, invece di non contare, è un miglioramento. Poter contare come gli azionisti, al pari degli azionisti, chi ci mette la vita per decenni in un’impresa deve avere il diritto di contare quanto chi ci mette il proprio risparmio, i propri quattrini. Mi sembra che questo sia evidente. E’ quindi una richiesta ragionevole e non tesa a indebolire la volontà di battersi, che ancora ha qualche motivo, perché diritti da rivendicare ce ne sono ancora. E anche da difendere. In questo momento forse più da difendere. Ieri, parlando con Iannelli, un dottore psicoterapeuta che è stato in Forza Nuova e ha collaborato con Rinascita, mi ha dato una interpretazione interessante della socializzazione come forma di democrazia, ritenendo quindi un modello di vera democrazia forse più vera di quella rappresentativa, una democrazia sul posto del lavoro. Non deve essere però intesa come del tutto sostitutiva di altre forme di democrazia. Non è sostitutivo del dibattito delle idee, insomma, delle idee e degli interessi. Oggi, per la verità, c’è una specie di mimetismo tra partiti. Sarebbe difficile distinguerli l’uno dall’altro.

C’è una “L” di differenza.

Per certi aspetti è anche positivo, quando vedo la manifestazione di Veltroni, in un tripudio di tricolori, ma anche lì si sono rovesciate le parti, insomma. Il tricolore difeso da sinistra, mentre la destra è legata a forme antinazionali, il leghismo, a nostalgie borboniche e antinazionali di stampo leghista. Le critiche all’americanismo oggi vengono più da destra che da sinistra. Veltroni vuol fare l’americano. Siamo arrivati all’assurdo, per cui c’è stato un congresso a Torino con cantautore, adesso non ricordo che cantautore americano, insomma. La sinistra italiana è ricchissima di cantautori, se n’è andata a cercare uno…

Lei collabora con la rivista “Area”, quindi ha modo di rapportarsi con la destra sociale, possiamo dire.

Ho fatto un libro sulla destra sociale ed è mia l’introduzione al libro Intervista di Alemanno sulla destra sociale, la prefazione è mia. Tra l’altro con una scoperta, perché rileggendo il Manifesto di Marx-Engels, il capitolo III° del Manifesto, è tutto una polemica con la destra sociale che precede il marxismo, perché questa polemica contro il socialismo corporativo, borghese, tedesco, religioso, è il prete che benedice la rabbia nell’aristocratico, è l’aristocratico che si mette la casacca del mendicante per cercare il consenso del popolo, mentre il manifesto esalta la borghesia imprenditrice, come la classe più rivoluzionaria, progressista della storia ed è molto irridente, feroce, contro le prime critiche allo sfruttamento liberalcapitalista, che sono di destra. Sono le due classi escluse: il prete e gli aristocratici che polemizzano contro lo sfruttamento che la borghesia imprenditrice fa degli operai. La destra sociale precede, storicamente, il comunismo, il marxismo. Bisognerà andarsi a rivedere questo terzo capitoletto.

Ritornando alla destra sociale attuale. Qual è la posizione attuale?

Tra l’altro, oggi sul Riformista c’è una pagina sulla destra sociale che tifa per Obama. Ci sono anche dieci righe mie, anch’io ho cominciato a tifare per Obama quando era in gara contro la Clinton, anche perché vedevo una deriva dinastica della democrazia statunitense, insomma. Il figlio scemo di un ex presidente, la moglie cornificata di un altro ex presidente segnava un po’ il passaggio che c’è stato nel nostro Rinascimento dalla Democrazia Comunale alla Signoria. Comunque, questa coppia repubblicana, lei è divertente, simpatica, ma una sgallettata. E lui è un vecchio penoso, questo repubblicano McCain. Ci sono stati anche grandi vecchi come De Gaulle, come Ben Gurion, come Adenauer, ma questo è proprio solo un vecchietto insignificante. E tutto sommato anche agli americani neri sta bene. E’ un altro segnale di come si scavalchino, si intreccino i rapporti tra destra e sinistra. Sicuramente, già possiamo dire che i rapporti sono stati di scambio quasi fino alla fine degli anni Sessanta. Poi, la rivolta generazionale ha scombinato molto, sclerotizzato il sistema, sistema che poi è ridivenuto liquido dopo il crollo del muro.

Infatti, anche i passaggi tra destra e sinistra riniziano ad essere dettati non solo da questioni di poltrone ma anche da altre cose. La rivista “Area”, che è l’organo ufficiale della Destra Sociale, l’organo principale, ha mai trattato il tema della socializzazione?

Della socializzazione, no. Forse della partecipazione. Adesso non sono in grado di pescare un numero di “Area” con la partecipazione.

Le è mai capitato di dibattere, di avere un dibattito intellettuale con esponenti dell’altra parte della barricata sul tema della partecipazione?

No, no. Anche perché è un tema morto, era appunto un tema rivendicato come bandiera, ma che non aveva possibilità. Non è un caso che l’articolo 46 della Costituzione sia rimasto un fossile e addirittura è considerato dagli studiosi di diritto costituzionale tacitamente abrogato. C’è la UTET, che ha fatto una strenna due anni fa, un commento ai primi cinquantadue articoli della Costituzione. Anche lì, vale la pena di andare a vedere i commenti all’art. 46.

L’art. 46 è quello che parla appunto della partecipazione.

E’ quello della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa.

Il libro che lei mi ha consigliato, di Scarpellino, Il capitalismo della partecipazione, faccio notare che, nonostante la scelta di abrogare la legge sulla partecipazione, ci fu tra il ’46 e la metà degli anni Cinquanta un tentativo di avviare un discorso simile a livello legislativo da parte dal PSI. Esistevano dei consigli di gestione, ma decaddero. Secondo lei, qual è la ragione, perché abbiamo tre processi paralleli: quello del PSI, quello del MSI che porta avanti il mito e la realtà dei consigli di gestione. Nessuno di questi tre è riuscito poi a sopravvivere.

E’ esistita sino all’altro ieri, forse ancora oggi, la convergente conversione della Confindustria e della CGIL per questo progetto. Su questo sono stati sempre d’accordo. Quando fu chiesto, come prima norma del CLN dell’Altitalia, il 25-26 aprile l’abrogazione della legge della partecipazione. Lo fecero per conto della Confindustria, ma con pieno consenso della CGIL, del Partito Comunista, che vedeva nella socializzazione un’insidia, perché addormentava gli impulsi alla lotta di classe, ma anche perché Togliatti, nella ricostruzione, ha, questo coraggiosamente, sostenuto le ragioni dell’iniziativa privata, insomma. Lui avrebbe potuto, nello sforzo della ricostruzione, invocare una maggiore mobilitazione della mano pubblica, invece lui ha capito che bisognava dare spazio all’iniziativa privata. E’ stato lui ad intervenire qui a Torino alla Fiat, erano stati epurati un migliaio di quadri, è stato lui a sbloccare quella situazione, perché sennò avrebbe portato al fallimento della Fiat. In questo, Togliatti è stato sempre di un realismo, di una grande intelligenza politica, insomma.

Fece bene?

Sì, sì. Fece bene, ma la socializzazione era troppo. Oltretutto era, in questo, d’accordo con gli industriali che non la volevano, insomma. Ecco la ragione per cui non si è mai arrivati ad un serio accordo per realizzare questo sogno, che poi la Costituzione comprende. Per quanto si neghi che l’art. 46 sia figlio della socializzazione della Repubblica Sociale, eppure in qualche modo ne incorpora il mito, insomma. E’ un progetto poi fatto proprio dalla dottrina sociale cattolica, però è rimasto lì.

Guardiamo anche all’estero. Lei è a conoscenza degli sperimenti sociali avvenuti a seguito del crollo in Argentina? Ci sono sperimentazioni di autogestione delle imprese.

No.

Sempre sull’Argentina, ma tornando indietro, visto che contemporaneo alla caduta del regime c’è la prima esperienza di governo peronista, lei vede elementi socializzatori nella gestione di Peròn?

Credo di no. Non sono in grado di rispondere su questo. Conosco troppo poco la storia del peronismo per poter intervenire con piena cognizione di causa. Ecco, l’unica idea che mi sono fatto è che in larga parte i desaparecidòs erano dei giovani fascisti, questa è la realtà. Un’alleanza tra ultrasinistra, marxista e peronisti, insomma. I generali golpisti di ispirazione liberista americana ributtarono in mare i giovani peronisti di sinistra, fascisti. Di solito si chiamano fascisti i generali che hanno fatto il golpe, ma non lo sono in questo caso, erano americani, erano un’altra cosa.

Anche per Pinochet c’è spesso l’accusa di fascismo.

Invece erano gli USA che stavano appoggiando la dittatura. Quella è una situazione che conosco un po’ meglio, perché sono stato inviato proprio alla elezione di Salvador Allende, ho anche dei ricordi curiosi, perché c’erano le cerimonie della cosiddetta trasmissione del potere al nuovo presidente, tra cui era compresa una sfilata e la sfilata la faceva l’esercito a passo romano, cantando con l’inno di Lilì Marlène. Mentre la marina cilena è stata costruita sul modello britannico, l’esercito cileno è di modello tedesco ed i liberali tedeschi, fuggiti, emigrati dalla Germania dopo il fallimento della rivoluzione liberale tedesca nel 1848, andarono dei liberali tedeschi militari ed impiantarono loro il modello di esercito. Appunto. Il modello di Pinochet proveniva dalla scuola di Chicago, non aveva niente di fascista.

Tornando ad un’idea di partecipazione adesso. Quali sono, a suo dire, i passi da fare per una forza politica che voglia proporre la partecipazione? E’ a suo dire necessario fare una forte opera di coscienza che potrebbe portare al progetto?

Sì, certo, questo nel mondo del lavoro è una richiesta che bisogna costruire, perché non c’è. E bisogna farlo capire. Comunque questo fenomeno, oggi la CGIL è un po’ nella realtà di oggi emarginata. La forza più trainante è Bonanni, la CISL, quindi potrebbe la CISL cercare di avviare un discorso di questo tipo.

Che, se non ricordo male, già a fine anni ’90 era stato ripreso dalla CISL in un suo documento programmatico.

Mi sta venendo in mente, visto che ho avuto buoni rapporto con “Conquiste del Lavoro”, che è il loro quotidiano, mi hanno anche festeggiato per l’ottantesimo compleanno l’altra settimana. Mi viene da suggerirgli di riattivare “Il Sabato, Conquiste del Lavoro” ha diverse pagine di cultura, si chiama “Via Po’”. E’ fatto molto bene. Si potrebbe far partire lì una discussione in tal senso.

Lei è anche a conoscenza che anche il PDL, attraverso il ministro Sacconi, aveva annunciato, poi stoppato, un discorso che in alcuni sensi era di partecipazione, ma solo per quanto riguardava il collegio sindacale, un discorso di partecipazione agli utili ma molto ridotto. Cosa ne pensa?

Sì, tra l’altro è un periodo in cui è piuttosto difficile avviare un discorso riformista. Stiamo imboccando un momento di crisi. Addirittura, stanno circolando teorie che, il cosiddetto capitalismo renano, era relativo ad un periodo come questo. La Germania sta ansimando per suoi sistemi interni.

Per quanto sia confermato che il capitalismo renano fosse inadatto, quello italiano lo è sicuramente.

Però, ecco, già in Italia io sono contento, sono un estimatore di Tremonti, ma sono contento che non sia passata la proposta iniziale di Tremonti di attivare un fondo unico europeo per la crisi, perché sennò ci sarebbe toccato di pagare a noi i buchi delle banche tedesche e di quelle inglesi. Tutto sommato, il sistema bancario italiano sembra il più sano.

Essendo il meno moderno… Insomma, le stesse cose che salvarono in parte l’Italia fascista nel ’29. Le stesse accuse di essere meno moderno, salvarono dal tracollo della modernità. Fondamentalmente io penso di avere finito, ecco.

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Matteo Cavallaio

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