L’intervista. Sansonna: “Zeman l’inattuale, una vita contro il conformismo nel calcio”

Zeman-620x380Abbiamo assodato che il calcio moderno sembra non piacere più a nessuno, per mille ragioni differenti. Alcune giuste, altre sacrosante, certe incomplete, qualcuna meramente retorica. Però quello che sappiamo e non ci ammettiamo è che nel pallone mancano, oggi, personaggi irregolari, affascinanti, che sappiano andare controcorrente rispetto alle frasette di circostanza o ai twit di autoincensamento. Al calcio mancano gli Zeman. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sansonna, astigiano, regista, documentarista, scrittore e autore televisivo che al Boemo (e a una sterminata pattuglia di eversori del conformismo) ha dedicato grandissima parte della sua vita professionale. E che ha scritto e diretto “Zemanlandia”.

Zeman e Milian, Carmelo Bene. E Pino Daniele. Cosa li unisce?

A me piace l’irregolarità rispetto a un canone condiviso. Sono tutti, a loro modo, degli irregolari. Li ho osservati da documentarista, parliamo di esistenze complesse e capaci di prendere direzioni completamente diverse nella loro stessa vita, alla don Chisciotte. E come il cavaliere di Cervantes è stato Zeman nel contesto di un feroce conformismo quale è quello del calcio italiano.

Il calcio può essere considerato come un linguaggio?

Sì, il calcio è linguaggio, indubbiamente. E non lo scopro io, questa era già una considerazione di Pier Paolo Pasolini. Di sicuro, nel corso del tempo, il pallone ha assunto la forma di un linguaggio e Zdenek Zeman ne ha fornito una sua versione, meravigliosamente in controtendenza rispetto alla direzione che intanto il football andava prendendo.

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Cioè? Con quale accento Zeman declina il linguaggio del pallone?

Zeman ha seguito sempre la via dell’educazione dei calciatori che gli erano affidati e del divertimento del pubblico nell’ottica di uno sport percepetico come correttezza e con la responsabilità di non risparmiarsi mai, da un lato e dall’altro di non cedere alla tentazione delle facili scappatoie, tipo il doping. Perciò il suo è calcio inteso come dispendio totale di energie, senza risparmio. Il patto con il pubblico è quello di non lasciarlo mai annoiare, dello spettacolo garantito, di evitargli partite bloccate. E sempre lo ha onorato. Ed è per questo, credo, che nonostante un palmares non troppo ricco ha raccolto stima e affetto trasversali. Lui non è un allenatore vincente, ma è di fatto, molto più amato di altri che pur avendo vinto molto più di lui rimangono indifferenti al giudizio e al cuore del pubblico. Raggiungere una finale a Lugano, con Zeman, rischia d’esser più esaltante di tante altri finali.

Zeman s’impone all’attenzione d’Italia col Foggia che domina la serie B nel 1990-91. Da allora a oggi, e son passati 25 anni, il calcio come è cambiato?

Innanzitutto è molto più difficile oggi che una pattuglia di giovani possa avere quell’impatto che ebbe Zemanlandia sul calcio italiano degli anni ’90. Basti pensare solo al fatto che c’è molto più denaro nel calcio di oggi rispetto a quello d’allora. Ma c’è anche altro. E riguarda la svolta della panchina, lo iato che esiste tra allenatori e “gestori”. L’allenatore, come lo è Zeman, vuole plasmare e far crescere i calciatori, inserirli in un contesto sportivo e umano coerente. Il gestore è invece quello che deve passare il tempo a convincere i suoi ad allenarsi. Oggi, nel calcio in cui il collettivo non è più decisivo perchè basta l’estemporaneo colpo di classe del campionissimo per togliersi d’impaccio – si cerca più il gestore che l’allenatore, c’è stata quella mutazione per cui – come racconta Ibrahimovic nel suo libro – Thuram sbaglia un movimento sul corner in Champions League, la Juve prende gol e Capello lo aspetta negli spogliatoi per distruggerlo davanti a tutti. La paura come chiave di gestione del gruppo a Zeman non si addice. Lui, nella sua utopia, vuole essere un padre per i suoi uomini attraverso lo sport e, soprattutto, li vuole amici magari anche fuori dal campo.

Il collettivo prima dei singoli, oggi è veramente qualcosa fuori moda.

La rivoluzione di Zeman è stata anche questa. Quel Foggia, facendo gruppo, nascondeva i pur minimi difetti dei singoli. Risultando una corazzata sostenuta dal tifo indiavolato della bolgia dello stadio Zaccheria dove, nei primi venti minuti fosse stato pure il Barcellona di Messi e Suarez, gli avversari non riuscivano a capire proprio niente. Il Milan di Sacchi – un altro che sul collettivo c’ha puntato molto – più che una squadra originale sembra il Foggia zemaniano, in versione extralusso però.

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Zeman è però personaggio che va oltre il calcio.

Sì, emana una grande forza attoriale. “Si vede che non c’è bisogno di allenatori”, disse parlando con Casillo durante le riprese di Zemanlandia. Una chiusura perfetta, da cinema d’altri tempi.  Eccezionale. Ai tempi di Foggia, proprio con Pasquale Casillo faceva una coppia tanto interessante quanto divergente. Casillo è stato tutto quanto ci possa collegare al mondo cinematografico di Scorsese, Coppola. Zeman, invece, è tutt’altro, silenzioso e impassibile è simile in tutto e per tutto ai personaggi di Aki Kaurismaki, quelli che – seppure gli cadesse una casa addosso – si scosterebbero giusto un po’ più in là a scrollarsi di dosso la polvere. Eppure fu grandissima sintonia, furono due strade per raccontare il mondo visto da Sud. Cosa che si incarna nell’impresa di battere, allo Zaccheria, la Juventus del Trap schierando – tra gli altri – un giovane sconosciuto e di melodia meridionalissima come Sciacca.

Qualcuno lo considera un mito…

E forse sbaglia. C’è una grandissima differenza che intercorre tra mito ed esempio. Più o meno la stessa che passa tra sentimento e sentimentalismo, gravissimo vezzo che in Italia ci portiamo dietro. Il mito è, sostanzialmente, un santino inoffensivo. L’esempio è tutt’altra cosa. E Zeman come esempio si è posto, nelle sue battaglie per cambiare le cose nel mondo del calcio. Come tutti i paladini della giustizia, il destino che gli è toccato è stato quello della “scomparsa”. Ovviamente, non fisica come purtroppo accade a grandissimi esempi quali Falcone e Borsellino. Gli è toccato in sorte di veder svanire le credenziali per allenare ad alti livelli, ha dovuto partire e ripartire dalla provincia.

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Ma sentimento e sentimentalismo che c’entrano?

C’entrano eccome perchè se sentito davvero la volontà e la necessità di cambiare il calcio, di accompagnarlo fuori dalle farmacie se davvero avessero voluto seguirlo ed ascoltarlo, Moratti se lo sarebbe preso all’Inter a suo tempo. E Pallotta, che pur concionava di calcio pulito, l’avrebbe difeso, creandogli attorno una struttura capace di sostenerlo. Invece hanno vinto quelli che si ammutinavano ai celeberrimi gradoni, quelli che si mettevano in malattia e quelli che restavano bloccati sul Raccordo Anulare. E invece  è andata diversamente. Per dirla con De Gregori, “gli fecero un monumento per dimenticarlo più in fretta”. Questo è il sentimentalismo.

Per il calcio non va bene, dicono, perchè è un “uomo contro”.

No, tutt’altro. E lui lo dice di esser persona che propone linee e motivi nuovi, anche sui temi scottanti del pallone come, su tutti, quello del doping. Ma non è il Savonarola che la stampa italiana –   spesso alla ricerca del titolone facile – ha dipinto. Zeman non ha mai voluto essere la gettoniera degli scoop e in tanti hanno approfittato del fatto che rispondesse, sempre, con arguzia e immediatezza a tutte le domande. Però, forse, veniva più facile raccontarlo così.

Possiamo dirlo che Zeman è un inattuale?

Sì. Assolutamente. Oggi gli allenatori vanno e vengono, oggi sono re e domani vengono mandati via e dopodomani già nessuno li ricorda più. Zdenek Zeman, invece, te lo ricordi sempre. Comunque sia andata, comunque vada.

@barbadilloit

Giovanni Vasso

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