LivreDeChevet016. L’antimodernità di Gómez Dávila e l’elogio delle frontiere di Debray

davilaRiflettere su tempo e spazio, come confini che disegnano un altrove inattuale rispetto alle gabbie del contemporaneo o che traccino limiti da preservare, in tempi in cui il peccato di hybris è funzione del sistema economico e sociale. Leggere aforismi eterni che ci sottraggono al quotidiano e poi un pamphlet agile per tornare all’esistenza con tracce che lasciano segni e forniscono strumenti di analisi, oltre che intuizioni che si sedimentano nel profondo.

Ci sono libri che, una volta letti, ci restituiscono al mondo segnando un prima e un dopo. A questa categoria appartiene la produzione aforistica di Nicolás Gómez Dávila, raccolta dalle Edizioni di Ar nel volume “Pensieri Antimoderni”. Impossibile, senza scadere nel ridicolo, recensire la profondità di pensiero seminata nel testo del pensatore colombiano, così reazionario e inattuale da essere, in tempi volgari, un autentico rivoluzionario. Si può solo intuire la carica eversiva di uno scrigno di diamanti da scagliare come sassi in faccia al vento, perché la frase, dice Gómez Dávila, “deve avere la durezza della pietra e la trepidazione del ramo”. Sottraendo al chiacchiericcio folgorazioni sempre valide, il senso complessivo riaffiora nel complesso, portando in dote lezioni spirituali che sfuggono al tempo lineare, considerato che “le verità passano, lo stile dura”.

Gómez Dávila fu uomo di radici, che non si spostò mai dalla sua casa di Bogotà, circondato dai trentamila volumi della sua biblioteca. Regis Debray è stato invece uomo di azioni, anche contraddittorie se si vuole. Entrambi ci insegnano il senso del limite, arma concettuale indispensabile per reagire all’esistente. Nel suo “Elogio delle frontiere”, l’intellettuale francese offre la descrizione di una categoria utile a comprendere molte delle dinamiche attuali – dalla imposta libertà di circolazione delle merci all’humus in cui nascono sradicamento e retorica migratoria – compendiando in un pamphlet snello la riflessione sulla frontiera. Dall’adorazione dei romani per il dio Termine al gesto fondativo della demarcazione come descritto nell’Eneide, passando per la connessione tra sacro e confine fino al limite come necessità di un’identità che possa riconoscere se stessa delimitando l’altro da sé. La differenza tra frontiera e muro, con quest’ultimo che “impedisce il passaggio, mentre l’altra lo regola” definisce anche la possibilità di opporsi al Medesimo, perché non ci può porre senza opporsi e “una comunità senza esterno che la riconosca o l’affronti non avrebbe più luogo d’esistere”, così come non esiste alcuna comunità internazionale, “flaccido zombie che resta una formula vuota, un alibi retorico in mano al’Occidente che, fino a oggi, si è arrogato il mandato di dirigerla”.

Tempo e spazio, si diceva. Aspirando all’eterno e delimitando i confini. Consapevoli, come direbbe ancora Gómez Dávila, che “non c’è cosa più deprimente dell’appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell’appartenere a una moltitudine nel tempo”.

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Mario De Fazio

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