Cultura. Fenomenologia del ribelle (Der Waldgänger) nei testi di Junger

Ernst Junger
Ernst Junger

Abstract: Il saggio intende analizzare la questione del nichilismo all’interno della riflessione di Ernst Jünger, concentrando l’analisi su due testi fondamentali: il Trattato del ribelle e Oltre la linea. Riconosciuta la provenienza nietzscheana della questione, intendiamo riflettere dapprima sulla descrizione fenomenologica che Jünger offre del deserto del nichilismo e delle sue connessioni con la modernità – tecnica in primis – per poi considerare le suggestioni propositive che l’autore delinea al fine di prospettare un superamento filosofico ed esistenziale del nichilismo.

«Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti!»1

Principiare con il grido profetico scagliato da Nietzsche ad una contemporaneità a cui fu sempre “postumo” significa stabilire un intimo raccordo fra il vate di Zarathustra e l’ideatore del Waldgänger. La riflessione nietzscheana sulla questione del nichilismo è difatti centrale motivo ispiratore della riflessione jüngeriana, evidente in particolar modo nei due testi che in questa occasione sfrutteremo come segnavia di un percorso abissale nel nulla. Nietzsche viene infatti citato esplicitamente tanto nel Trattato del ribelle, in cui Jünger riporta testualmente l’espressione con cui abbiamo introdotto la presente trattazione2, quanto in Oltre la linea, dove Nietzsche viene indicato insieme a Dostojevskij quale autore nodale e imprescindibile in merito alla speculazione sul problema del nichilismo. Difatti, all’interno del testo pubblicato nel 1951 nella Festschrift in onore del sessantesimo compleanno di Heidegger, si trova scritto in merito alle considerazioni nietzscheane che «anche se dal loro concepimento sono passati più di sessant’anni, questi pensieri continuano ad agire su di noi come uno stimolo, come proposizioni che hanno a che fare con il nostro destino»3.

Il nichilismo è nietzscheanamente inteso da Jünger come un processo necessario e destinale, implicato nella forma stessa dell’Occidente e inserito in un ampio ed onnipervasivo processo spirituale. Nichilismo significa «un grande destino, una potenza fondamentale al cui influsso nessuno può sottrarsi»4. La potenza del negativo appare qui insieme onnipresente ed indefinibile, ineffabile nella sua disposizione di ni-ente che non può trovare alcuna definizione razionale conclusiva. Jünger ne è ben consapevole quando afferma che «la difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. […] Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto»5. Eppure il niente si imprime indelebilmente sulle esistenze dell’uomo moderno, ne lacera la carne e ne divora lo spirito in una trasfigurazione annichilente che invoca e suscita la postura dell’uomo, interrogandolo sui fondamenti.

In un’approssimazione a una precaria e temporanea designazione del problema, Jünger tenta comunque una raffigurazione del nichilismo; egli riprende, in particolare, da Nietzsche la valutazione del nichilismo come mancanza del fondamento di senso e di valore, da Dostojevskij, invece, la considerazione del nichilismo come allontanamento solipsistico dalla comunità, in uno sfaldamento dei vincoli inter-soggettivi. Jünger rileva inoltre come il tema del nichilismo divenga centrale in ogni espressione dell’umanità occidentale, dall’arte alla religione, dalla società alla politica. Si tratta di un paesaggio desolato e desolante, entro cui la presenza umana pare definitivamente cancellata. Scrive con vigore poetico Jünger: «Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda d’un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia»6.

In concomitanza con il fenomeno nichilistico si possono talvolta manifestare gli ambiti della malattia fisica, del male morale e del caos. Il nichilismo può combinarsi a questi fattori, ma spesso si rivela al contrario nelle pieghe più paradossali del mondo, nella perfetta salute fisica, nel bene morale e nell’ordine statale.

Così «se si ha l’occasione di osservare da vicino un consorzio nichilistico – e non c’è bisogno di pensare a un gruppo di dinamiteros o a una “squadra della morte”, quanto piuttosto a un’assemblea di medici, tecnici o funzionari economici che discutono dei problemi di loro competenza – tutto si potrà osservare, tranne che una particolare cagionevolezza»7. Il nichilismo assurge ormai a condizione normale, non più patologica, e nel suo stagliarsi come automatismo mostra quella che a nostro avviso è la connotazione più particolare della tematizzazione jüngeriana del problema: la sua natura di dispositivo tecnico meccanico, autonomo e oppressivo. Così il delinquente non è nichilista, giacché la sua stessa identità presuppone l’esistenza di un contraltare, il bene, e quindi di un sistema etico vigente. É piuttosto l’indifferenziazione di bene e male a fungere da luogo di coltura del nichilismo. Nel nulla scompare il meraviglioso, il simbolo muore insieme a Dio ed emerge una temibile “vertigine cosmica”, entro cui soltanto specializzazione, frammentazione ed atomizzazione risultano fenomeni ricolmi di vigore. Essi fungono da base all’edificazione del dominio della tecnica e al dispotismo che ne è il riflesso politico. La tecnica, infatti, automatismo in vertiginosa accelerazione, assurge a nuovo “stile”, a nuova “forma” della nostra era, che è «una svolta fra due epoche la cui importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio dall’età della pietra all’età dei metalli»8.

L’imposizione tecnica, il Gestell di cui parla Heidegger, performa il mondo operando come meccanismo autonomo nel senso etimologico del greco autonomos, cioè mediante leggi proprie, svincolate da ogni considerazione etica, estetica e spirituale, perdendo insomma di vista l’uomo. Essa è d’altra parte un fenomeno duplice, che racchiude in sé la propria antitesi concettuale: la tecnica non è un male in sé, secondo Jünger, ma risulta tale nel momento in cui la sua pro-vocazione non incontra la risposta dell’uomo, nella misura in cui le nuove esigenze spirituali che la tecnica suscita rimangono non corrisposte. La tecnica richiede nuove forme mitiche e spirituali che ne declinino il senso, superando il piano meramente materialistico che livella la dimensione spirituale autenticamente umana – o, meglio, sovra-umana.

Ed è proprio un ritorno all’uomo a costituire l’imperativo abbracciato da Jünger quale via di oltrepassamento del nichilismo. Anche qui è evidente il richiamo al nietzscheano Übermensch, di cui tuttavia Jünger propone una declinazione non soggettivista e volontaristica, bensì agganciata ad una dimensione immaginifica originale ed autentica, impregnata del Sacro e ispirata all’Idea. Si potrebbe forse dire che l’intellettuale tedesco integra la figura dell’Operaio, elaborata negli anni giovanili a partire da un volontarismo di marca nietzscheana, mediante il ricorso alla metamorfologia di Goethe. Übermensch diviene così Ur-mensch, uomo elementare, originario in quanto proiettato in quel panorama indifferenziato e matriciale, il “regno delle madri”, da cui attingere per una costruzione di “nuove tavole di valori”, radicalmente rivoluzionarie in senso astronomico, in quanto foriere di una irruzione del nuovo risolvibile in un ritorno all’Origine nel suo dinamismo metamorfico.

Questo soggetto deve operare un netto distacco, in primo luogo da se stesso, come estrema rinuncia alla volontà soggettivistica e all’imposizione, che è modalità di rapporto con l’alterità tipicamente tecnica.

In Oltre la linea Jünger individua tre ambiti esistenziali in cui l’uomo moderno può spingersi oltre la linea del nichilismo9. La tesi del filosofo non corrisponde a un posizionamento ingenuo o manieristico. Jünger è consapevole che non «mancano le risposte; al contrario, ce ne sono molte e diverse, ed è questo che disorienta. La salute non nasce dal fatto che tutti diventano dottori. Le vere cause della nostra situazione sono sconosciute e non possono essere chiarite attraverso spiegazioni affrettate»10.

Jünger dimostra comunque il coraggio di svelare dei settori dell’espressione umana in cui è possibile guadagnare libertà dal dominio tecnico, combattendo con la propria singolarità il nichilismo e recuperando quella dimensione umana andata perduta. In questa prospettiva l’atteggiamento meramente conservatore risulta sterile e le chiese tradizionali, per quanto lodate dallo stesso Jünger in virtù della loro opera di resistenza, non sono più adeguate, in quanto incalzate anch’esse dal deserto. Bisogna ritornare alle fonti originarie del sacro, alla dimensione aurorale a cui abbeverarsi per suscitare nuove forme e nuovi stili che siano incarnazioni dell’eterno persino nel “regno della quantità” di guénoniana memoria.

Si prospetta l’Heimat del mito11, che non è storia remota, bensì “precedente autorevole”12, «realtà senza tempo che si ripete nella storia»13, sede del rinnovarsi perpetuo delle manifestazioni immanenti degli archetipi imperituri.

Così Jünger ricorre alla Wildnis, la “terra selvaggia” includente le tre oasi cui il ribelle in lotta col nichilismo può abbeverarsi. Peculiarità che le accomuna è l’esprimere la «principesca apparizione dell’uomo»14, altrove assente, e l’opporsi alla paura, sentimento dominante dell’era del nichilismo. Il terrore domina ogni esperienza umana mediante il controllo del meccanismo e dell’automatismo. Per riconquistare la libertà bisogna approdare «nel disordinato e nell’indifferenziato, in quei territori che sono, sì, organizzabili ma che non appartengono all’organizzazione»15. Si tratta di quello «spazio dal quale l’uomo può sperare non solo di condurre la lotta, ma anche di vincere. Non è più naturalmente una terra selvaggia di tipo romantico. É il terreno primordiale […] Anche nei nostri deserti ci sono infatti oasi nelle quali fiorisce la terra selvaggia. […] Sono i giardini ai quali il Leviatano non ha accesso»16. Lo spazio della libertà è difatti il regno di una forza centripeta, una potenza che trasporta l’uomo al di fuori dai domini della necessità meccanicistica per reintegrarne l’essenza nell’immobile solitudine del vuoto originario. E le tre oasi, che del regno della libertà si ergono a manifestazioni, sono: la morte, la cui assunzione responsabile sottrae l’uomo al regno della paura; l’eros, poiché «quando due persone si amano, sottraggono terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla»17 – ma soltanto, si badi bene, in un sentimento che sia amore o amicizia in quanto dominio spirituale e simbolico, e non semplice sessualità, che è il corrispettivo organico della tecnica –; l’arte, che è poiein, creazione simbolica di senso e apertura di possibilità.

L’oasi, Wildnis, è dunque luogo di svelamento, al cui interno «ogni cosa non è che epifania dell’invisibile, trasparizione di un Altro che in ciascuna si annuncia assentandosi»18.

Mediante queste conquiste l’uomo può riconoscere la natura più nascosta del timore nichilistico, che gli altri percepiscono come terrore ineluttabile, e riconvertirlo in libertà. Questa pratica è particolarmente adatta al poeta e al pensatore, in quanto «se nell’atto del poetare il linguaggio si curva in sfere spirituali al pari di un terreno fertile, nell’ambito del pensiero esso affonda le sue radici nell’indifferenziato. Sono movimenti vicinissimi al niente»19.

Ed è proprio in tale vicinanza che si aprono spiragli di luce, in uno svelamento da conquistare con impegno e responsabilità. E’ in tale prospettiva che l’arte diviene terreno di oltrepassamento del nichilismo, in quanto luogo privilegiato mediante cui rapportarsi all’essere, poiché «il poeta manifesta l’enorme superiorità del regno delle Muse su quello della tecnica, e aiuta l’uomo a ritrovare se stesso: il poeta è Ribelle»20.

La conclusione del saggio jüngeriano reintegra sinteticamente le potenze elementari suscitate nell’“inattuale” breviario mediante cui confrontarsi con la modernità:

«L’accusa di nichilismo è oggi tra le più diffuse […]. E’ probabile che tutti abbiano ragione. Dovremmo perciò farci carico di quest’accusa, anziché attardarci tra coloro che sono incessantemente alla ricerca di colpevoli. Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca. Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e di ogni rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici»21.

Questo è il compito precipuo del Waldgänger, il ribelle che è in realtà un “imboscato”22, nel senso letterale di “colui che passa al bosco”, allontanandosi dai centri di potere senza mire di escapismo romantico o di egoistico arroccamento in una felice turris eburnea, bensì con l’intenzione di riapprodare all’indifferenziato originario, a quel suolo fertile esterno al deserto del nichilismo, ma talvolta presente nelle sue curvature più nascoste, nelle retrovie del nemico, per conseguire una reale metanoia, svolta interiore radicale capace di influenzare successivamente il mondo esterno. Costui è «chi nel corso degli eventi si è trovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. […] il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporre all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo»23.

Emerge qui una potente identità fra Wildnis Wald, in quanto il passaggio al bosco diviene simbolo di una immersione in quelle fonti perenni di senso che in Oltre la linea erano state identificate nelle tre oasi. Wildnis eWald sono inoltre entrambe Lichtung, in senso heideggeriano, radura aperta nel folto del nichilismo ove le banali separazioni fra interno ed esterno, dentro e fuori, soggetto ed oggetto vengono meno. L’uomo si ritira in essa nel silenzio dell’in-fante, dell’originario che precede la parola e la violenza impositiva della tenica.

Le oasi sono allora «una metafora per indicare un territorio vergine in cui ritirarsi dalla civiltà ormai segnata dal nichilismo, in cui sottrarsi agli imperativi delle chiese e alle grinfie del Leviatano»24.

Il Ribelle avverte che la paura è uno dei più gravi sintomi della malattia nichilista. Il disastro del Titanic ne è l’emblema più evidente: al suo interno automatismo e agevolazione tecnica paiono inscindibili dalla limitazione del potere di decisione individuale e dal terrore. «Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o Leviatano.»25 Tale mezzo rivela nei frangenti di difficoltà e disagio la completa assenza di libertà che al suo stesso interno alberga.

Il panico dilaga pervasivamente, mira a sottrarre all’uomo la parola, stabilendo un monologo del terrore che impone il livellamento di ogni differenza capace di ostacolare il Leviatano. Al suo opposto vi è il Ribelle. Egli è il singolo, non l’individuo atomizzato che costituisce il tipo antropologico ideale su cui edificare la dittatura totalitaria della maggioranza, bensì la persona, «l’uomo libero come Dio l’ha creato, l’uomo che si nasconde in ciascuno di noi»26, quel soggetto libero il cui periodico riscoprirsi edifica il «ritmo superiore della storia»27.

II Waldgänger, di fronte all’impossibilità della resturazione conservativa del sistema dei Padri, si spinge in profondità, conduce una nekuia «presso le Madri, al cui contatto si sprigiona l’energia primigenia che le semplici forze del tempo non sono in grado di arginare»28.

Decisivo il cambiamento di stato che ne consegue: «Se uno ha toccato l’essere anche una volta soltanto, ha varcato il margine lungo il quale hanno ancora peso le parole, le nozioni, le scuole, le confessioni. Ma in compenso ha imparato a venerare ciò da cui esse traggono vita»29.

Nell’immagine, di chiara matrice goethiana, si affaccia la militia super terram del Ribelle, il quale lotta contro la paura suscitata dallo scorrere nichilistico del tempo, che conduce al nulla inesorabile, superando il tempo stesso per cogliere l’istante eterno nel suo folgorante baluginare. Resistere contro il tempo, fonte primaria della paura del divenire diretto alla morte, significa mirare l’istante del vuoto, nell’hic et nunc che è il manifesto dell’eterno presente per la cui intuizione si deve combattere.

Il Waldgänger è allora uomo spirituale, symbolicus in senso cassireriano, e assiale, in quanto connesso all’axis mundi che ogni tradizione identifica con il polo da cui promana, nella dinamica verticalità qualitativa dello spirito, la centratura dell’esser-ci nel mondo. Questa gettatezza è una forma di esistenza in cui libertà e necessità sono compenetrate: la libertà è imperitura, ma si manifesta nelle costrizioni delle contingenze storiche. La qualità del rapporto fra libertà e necessità determina per Jünger lo stile di un’epoca. E lo stile di cui secondo Jünger abbiamo bisogno richiede «un nuovo monachesimo […] un movimento spirituale che si scelga il nichilismo come proprio terreno e su di esso si modelli riflettendone l’essenza»30.

In questo contesto, il bosco è struttura geografica di rivelazione, Heimlich (segreto), parola tedesca bifronte, in quanto indicante il focolare, il baluardo di sicurezza, l’Heimat, e insieme il clandestino, il perturbante nascosto. Così assistiamo al palesarsi di un topos destinale per l’uomo: «Il bosco lo fa morire e risorgere simbolicamente. A un passo dall’annietamento c’è il trionfo»31.

Il bosco è pertanto un luogo ombelicale e polare, sorgente di multiformi ed eterogenee immagini simboliche in cui la diversità rimanda all’unitarietà del fondo da cui tutte insieme provengono.

Queste figure, assunte coraggiosamente su di sé dal Waldgänger, diventano strumento principe della riscossa contro il nichilismo, il cui epifenomeno viene ribadito essere la paura, quel terrore verso l’annientamento e la morte che è caratteristico dell’essere umano di ogni tempo ma è pervicacemente radicato nell’età dell’“ospite inquietante”. Il bosco è allora il luogo in cui vita e morte si fronteggiano. Al suo interno il Ribelle può trovare la chiave di volta per oltrepassare il “punto zero”, poiché il bosco «dischiude i suoi tesori surreali quando l’uomo è riuscito a oltrepassare la linea. Qui si posa l’eccedenza del mondo»32. È questa eccedenza, dimensione non necessaria e pertanto libera, pura espressione spirituale dell’uomo e del cosmo, gioco originario, a fungere da polo antitetico al dubbio e al dolore, i due grandi sintomi del nichilismo, attraverso cui bisogna passare per poter accedere a una nuova epoca.

Per Jünger il nulla, come la Sfinge, interroga l’uomo riguardo a se stesso: «Dipende dalla sua risposta se sarà divorato o incoronato. Il nulla vuole accertarsi che l’uomo sia in grado di reggere la prova, vuole sondare se in lui vivono elementi che mai il tempo potrà distruggere. In questo senso nulla e tempo sono identici»33.

Il tempo si incarna infatti negli apparecchi della tecnica che spingono l’accelerazione del mondo: l’uomo può collaborare con questo processo, accettandolo supinamente, oppure cogliere la componente non tecnica della tecnica stessa e divenirne padrone, in un rinnovamento del senso del mondo e dell’esperienza che si fa di esso. Con Caterina Resta si può allora affermare che «Jünger già sapeva che resistere al nulla e, infine, oltrepassarlo, non è uno scontro frontale, un combattimento, ma un affidarsi ad esso, un penetrare in esso ancora più a fondo. Scorgere in quel niente del nichilismo, la sua essenza non nichilistica: è lì, in questo scrigno, che tutti i tesori sono al sicuro»34.

La ribellione è un atto schiettamente umanista, o meglio ur-umanista, nel senso che invoca un ritorno dell’uomo e della potenza originaria e singolare di quel soggetto metafisico che non necessita di teorie morali, bensì «attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni»35. La metafora geografica torna nella conclusione del Trattato del ribelle, a marcare un sigillo dalla fisionomia pontificale, in quanto passaggio transitante dal passato al futuro, possibile mediante la libera riappropriazione da parte dell’uomo del proprio presente: «Chi scava più a fondo, in ogni deserto, tocca lo strato da cui sgorga la fonte. E con l’acqua che zampilla riaffora nuova fecondità»36.

Solo così si realizzerà storicamente l’Übergang, quell’oltrepassamento tanto auspicato da Nietzsche, nella convinzione che l’essere non possa esser distrutto nell’uomo ma che debba esser sempre di nuovo (l’husserlianoimmer wieder) riattinto, e non mediante la volontà, origo prima dei mali moderni, bensì attraverso una nuova disponibilità e apertura al divino che nel mondo sempre alberga quale trascendenza immanente.

NOTE:

1 F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume, trad. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 2006, p. 31.

2 Cfr. E. Jünger, Trattato del ribelle, trad. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 2010, p. 82.

3 E. Jünger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, trad. it. di A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 2010, p. 49.

4 Ivi, p. 57.

5 Ivi, p, 59.

6 E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, trad. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 104 (Parigi, 9 luglio 1942).

7 Ivi, pp. 70-71.

8 E. Jünger nell’intervista a Jacques Le Rider in Le Monde-Dimanche, 19/08/1982, cit. in A. de Benoist, L’operaio tra gli Dei e i Titani, trad. it. di M. Tarchi, Asefi, Milano 2000, p. 99.

9 Così, mentre Heidegger intende Über die Linie nel senso del latino de linea, cioè come sostare del “pensiero pensante” sul confine (die Grenze) del nichilismo, Jünger lo interpreta come trans lineam, ritenendo che «il nichilismo si avvicina alle mete ultime. Mentre tuttavia, entrando nel suo dominio, la testa era minacciata e il corpo invece era ancora al sicuro, ora accade il contrario. La testa è al di là della linea» (E. Jünger, Oltre la linea, cit., p. 81). Da qui il rimprovero heideggeriano: Jünger dimostra un ottimismo infondato, proponendo delle soluzioni che, per quanto contenenti un fondamento veritativo, permangono entro la linea, giacché continuano a servirsi del medesimo linguaggio e della stessa impostazione

(da Filosofianuovisentieri.it)

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