C’è di fatto però che anche il meccanismo delle “quirinarie” mette ulteriormente in crisi la carta costituzionale. Lo strumento voluto da Beppe Grillo, nella sua novità assoluta, palesa una vecchia pretesa, quella cioè di far sì che i cittadini possano intervenire direttamente nell’elezione del capo dello Stato. Un tempo questa ricetta aveva una nome, anche dirompente. Si chiamava presidenzialismo, il cavallo di battaglia missino, il fiore all’occhiello di un Gianfranco Fini che fino al 1996 si diceva “chiaro e coerente”. Sembra passato un secolo. Quelli era gli anni del Polo delle Libertà. Periodo in cui è scesa in campo una delle proposte politiche più rivoluzionarie (almeno a parole) del panorama nostrano. Una aggregazione d’idee che avevano in comune un sogno di riforme complementare, ma in sé totale. La Lega voleva il federalismo, i “fasci” il presidenzialismo e il Berlusca, sul versante economico, la mai realizzata rivoluzione liberale. Beh, sappiamo tutti come sia andata a finire.
Ma il presidenzialismo non è una riforma tra le altre. Investe una dimensione diversa. É il tabù dei tabù della coscienza repubblicana, che torna come un incubo, anche attraverso dei surrogati assai discutibili. Quello delle quirinarie lo è. Ma è una bestemmia credere o affermare che buona parte dei problemi, anche economici, dell’Italia sono connessi all’instabilità connessa all’impianto costituzionale repubblicano? Sembra di sì. Ma -lo si lasci dire- l’idea che si possa governare un paese attraverso il Parlamento o un esecutivo dimissionato, ma tenuto in vita da una vacatio di potere che supera i confini nazionali, lo è di gran lunga. Il presidenzialismo non è contro la democrazia, ma la sua alta espressione. Ma questo assunto vale se, per qualcuno, la parola popolo ha ancora un valore.