Nel 1945, nell’isola filippina di Lubang, il nipponico Hiroo Onoda, tenente dell’esercito imperiale, riceve dal suo comandante, il maggiore Yoshimi Tanigushi, una consegna: di rimanere a Lubang, compiendo azioni di guerriglia contro i soldati americani dopo il loro sbarco nell’isola, di resistere a ogni costo, perseverando in attesa di nuovi ordini, senza prestar fede a qualsiasi ingannevole invito alla resa.
A 23 anni, egli comincia così la propria “guerriglia di trent’anni” nella giungla di Lubang. Essa termina nel marzo 1974, allorché, recatosi di proposito nell’isola, il maggiore Yoshimi Tanigushi solleva dalla consegna il tenente Hiroo Onoda, dopo avergli comunicato la dichiarazione di capitolazione dell’Imperatore nel 1945.
Deposte le armi, Hinoo Onoda abbandona finalmente Lubang, riportando con sé in Giappone la propria spada di samurai, da lui custodita per trent’anni nella foresta filippina.
Il testo dell’estratto
Affrontammo un nuovo anno, il 1946. Questo significava che ero stato a Lubang per dodici mesi pieni. Alla mattina del nuovo anno ci inchinammo al sole nascente e giurammo di fare del nostro meglio nell’anno entrante.
Adesso era raro che udissimo colpi di fucili, ma di tanto in tanto eravamo messi in allarme dal fuoco di mitragliatrici, apparentemente diretto alle montagne dove eravamo nascosti. Avvistai una portaerei al largo della costa, e a volte l’isola era sorvolata da caccia Grummon. Era evidente che la guerra era ancora in atto.
Ai primi di febbraio, il caporale Shimada andò a caccia con Eishichi Irizawa e Shoji Kabayashi, della squadra della guarnigione, e con un soldato di nome Watanabe, dell’ufficio informazioni dell’aeronautica. Non trovarono selvaggina, e, dopo essersi separati da Watanabe, che tornò da una strada diversa, si avviarono a mani vuote verso la nostra base.
Durante il giorno avevamo visto alcuni soldati filippini su un camion ai piedi della catena montagnosa, ma non avevamo pensato che i soldati si accingessero a entrare nelle foreste che ammantavano i fianchi delle montagne. Si avviarono chiacchierando e ridendo sul sentiero del ritorno, e improvvisamente scoprirono di essere penetrati nel bivacco dei soldati filippini. I filippini, spaventati dall’apparizione di soldati giapponesi, pensarono di essere attaccati e immediatamente aprirono il fuoco. Il caporale Shimada si tuffò nel folto e discese precipitosamente una collina, ma Irizawa e Kobayashi rimasero uccisi.
Poco dopo, il soldato semplice Yuichi Akatsu si unì a noi tre.
Era accampato con Irizawa e Kobayashi, ma la loro morte l’aveva lasciato solo. Bastava guardarlo per classificarlo subito come un lavativo, e Kozuka cercò di allontanarlo.
“Va’ da qualche altra parte” lo esortò. “Non ce la farai a starci dietro. Sei deboluccio e non molto esperto della vita militare. Ci saresti d’impaccio. Va’ ad aggregarti al gruppo del caporale Fujita.”
Akatsu disse di sì, ma continuò a starci appiccicato alle costole perché sapeva che avevamo più cibo degli altri. Gli altri gruppi avevano quasi finito il riso, e cominciarono a venire a chiederci un po’ del nostro. Diedi a tutti quanti la stessa risposta: “Voi vi siete abbuffati quando il riso l’avevate, ed è per questo che siete rimasti senza. Non venite a chiedercene. Sono stato mandato qui per distruggere il campo d’atterraggio, e ho ancora l’intenzione di farlo. Noi stiamo economizzando il più possibile sulla nostra scorta di riso. Integriamo la nostra dieta con banane e carne, e voi avreste dovuto fare lo stesso. Se vi dessi del riso, verremmo a trovarci nei guai tutti quanti. Voi non siete capaci di farlo durare.”
In seguito pensai che forse era stato il mio rifiuto a rifornirli di riso a indurre alla resa, in aprile, quarantuno di loro, compreso il caporale Fujita.
Dopo marzo si fecero sempre più numerosi i volantini che ci esortavano alla resa, e di tanto in tanto sentivamo qualcuno che ci chiamava in giapponese. Più tardi, i giapponesi che si erano arresi cominciarono a lasciare per l’isola dei messaggi che dicevano: “Questa volta sono soltanto dei giapponesi a cercarvi. Venite fuori!”
Ma non potevamo credere che la guerra fosse davvero finita. Pensavamo che il nemico stesse semplicemente obbligando i prigionieri a prestarsi ai loro stratagemmi. Ogni volta che le squadre di ricerca venivano a chiamarci, andavamo a nasconderci in un’altra località.
Mi abituai alle loro argomentazioni. “Tenente Onoda,” dicevano, “abbiamo stabilito un contatto con la squadra di ricerca. È pregato di uscire. Ora ci troviamo a punto X, e stiamo setacciando tutta questa zona. È pregato di venire a questo punto.”
Lanciarono volantini scritti a matita in buon giapponese, che fecero molta impressione sul soldato semplice Akatsu. Una sera, finito di mangiare, egli disse: “Tenente, non pensi che la guerra sia davvero finita?”
Risposi di no, al che Shimada dichiarò: “Ho anch’io l’impressione che sia finita”.
Kozuka rimase zitto. Scrutai per qualche attimo le loro facce e poi dissi: “Va bene, se è questo che voi tre pensate, andrò ad accertarmi della situazione. Tutti e tre avete dei modelli 38. Nel caso che ne vadano persi due, potreste sempre usare le munizioni. Se invece io perdessi il mio 99, le mie munizioni andrebbero sprecate. Lo lascerò qui e porterò con me soltanto delle bombe a mano. Penso che mi sbrigherò in fretta. Se le cose stanno come dice Akatsu, uscirò allo scoperto con voi. Ma se non ritorno, saprete che la guerra continua. Toccherà allora a voi decidere se continuare a combattere fino alla fine oppure no.”
*Dietro le linee di Hiroo Onoda (pp.263, euro 25, Edizioni di Ar 2015, collana Sannô-kai; per ordini: info@libreriaar.com)