#Marò. La perizia indiana: proiettili incompatibili con quelli in dotazione ma l’Italia lo sapeva già

Latorre Massimiliano, Salvatore GironeColpo di scena (annunciato) sul caso marò: i proiettili che hanno ucciso i pescatori indiani del Kerala non sarebbero compatibili con quelli in dotazione a Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Secondo quanto rilanciano i media nazionali, la difformità tra i colpi emergerebbe addirittura dall’incartamento presentato dall’accusa indiana ai giudici del Tribunale del Mare di Amburgo. Un clamoroso autogol, dunque.

C’è però da dire che la questione dei proiettili non rappresenta certo una novità. Le perizie di parte italiana hanno sempre sottolineato la difformità e, contestualmente, l’estraneità di Girone e Latorre rispetto ai drammatici fatti di sangue nel Golfo del Kerala. L’analisi tecnica, che è iniziato nel 2012, venne eseguita dall’ingegner Luigi Di Stefano e, pubblicata già allora tra i documenti resi disponibili al pubblico dal Sole 24 Ore, recita testualmente:

“Ad oltre due anni dai fatti avvenuti il giorno 15 febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala, in India, e che hanno visto coinvolti Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, due militari italiani in servizio di scorta alla petroliera italiana Enrica Lexie, si può affermare che la mole delle informazioni raccolte li scagiona dalle accuse loro rivolte di aver causato la morte dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki.

Fin dal primo giorno 15 febbraio, nell’immediatezza dei fatti, le indagini degli inquirenti indiani si sono svolte in base a una tesi di colpevolezza “a prescindere” trascurando l’indagine verso altri evidenti possibili colpevoli.

Già il primo giorno 15 febbraio si omette la testimonianza a caldo del capitano-proprietario del peschereccio St. Antony che scagiona i due accusati. Già il secondo giorno 16 febbraio le autorità indiane hanno organizzato una “sceneggiata mediatica” ad uso dei media nazionali e stranieri per indicare la “colpevolezza italiana” portando sulla scena un falso peschereccio St. Antony. Pochi giorni dopo, il 29 febbraio, il Tribunale di Kollam ha negato ai periti giudiziari della difesa il diritto di partecipare alla perizia balistica. Ancora qualche settimana, a maggio 2012, il peschereccio viene riconsegnato al proprietario che subito lo lascia affondare, distruggendo la possibilità che la difesa chieda nuove analisi e verifiche. Ancora pochi giorni, a giugno 2012, e le autorità indiane ufficializzano un falso scenario su “la fuga e la caccia” alla petroliera italiana, che viene poi smentito dai loro stessi documenti.

E così via.

Le accuse diventano talmente insostenibili dal punto di vista giudiziario che a marzo 2013 la stessa autorità federale indiana deve ordinare di rifare le indagini da zero alla NIA (la speciale agenzia antiterrorismo), la quale non può fare altro, e siamo ai giorni nostri, che invocare una legge, la “Sua Act”, che rovescia l’onere della prova sugli accusati, come ai tempi dei processi europei sulla caccia alle streghe del 1500. Sarebbero gli accusati a dover dimostrare di essere innocenti, e non il contrario come in ogni legislazione da Stato di Diritto.

 

Entrando nello specifico, nella vasta documentazione si legge – qui in sintesi – il profilo della vicenda riguardante i proiettili e le armi in dotazione ai fucilieri di Marina imbarcati sull’Enrica Lexie e le risultanze dell’inchiesta indiana:

Con i fucili Beretta sequestrati sulla nave le autorità indiane hanno eseguito delle “prove di sparo”, evidentemente per recuperare i proiettili da confrontare con quello ritrovato nel corpo di una delle vittime.

Non si conosce quale tipo di controllo le autorità italiane mantengano sui quei proiettili (sono di proprietà dello Stato italiano) ma si giudica che sia nullo, in linea con la posizione, diciamo così “accondiscendente” finora tenuta.

Non era necessario sparare coi fucili dei nostri militari. Bastava leggere il calibro marcato sul fucile, e infilare un calibro metallico nella canna come controprova. Poi, se nel corpo delle vittime si trovava lo stesso calibro si poteva procedere a sparare.

Quindi le autorità indiane hanno in mano, per aversela procurata da soli, la “prova” della colpevolezza italiana da sbandierare in giro. (in sostanza: sono saliti sulla nave e si sono preso quello che gli serve per fabbricarsi le prove).

In queste circostanze come esperto di parte inquisita potrei far invalidare una prova così ottenuta da qualsiasi tribunale.

E’ bene chiarire che se il proiettile repertato non è più quello del 16 febbraio “circonferenza 24”, ma diventa miracolosamente un proiettile nostro, qualsiasi tribunale invaliderebbe questa “prova”, a meno che si possa dimostrare ai giudici (e a quest punto alle opinioni pubbliche) che i proiettili usciti dalle prove di sparo non sono mai usciti dal controllo delle autorità italiane (sono di proprietà dello Stato, non possono essere neanche venduti fuori dei modi previsti dalla legge).

Non si vuole sostenere l’ipotesi del “complotto” ai danni dell’Italia, ma da quanto emerso finora sembra di trovarsi di fronte a un gigantesco errore della Guardia Costiera indiana alla sera del 15 febbraio, e poi continuato per coprire la magagna e/o per svariati motivi, definire i quali non è il fine di questo lavoro che vuole essere solo tecnico.

Però, visto l’insieme delle cose, ci si augura che non accadano altri errori di valutazione.

Anche perchè ci sono altri elementi tecnici ancora inesplorati e che potrebbero smentire oggettivamente qualsiasi errore, come accaduto finora.

L’Italia, in caso di errori può sempre appellarsi all’ONU e chiedere una commissione di inchiesta internazionale, a cui fornire gli elementi tecnici e le risultanze oggettive.

Basti ricordare che proprio fornendo all’ONU i risultati dell’inchiesta sull’attentato aereo di Lokerbie, in cui la prova erano solo frammenti di detonatore, gli USA fecero mettere sotto embargo la Libia per oltre dieci anni, finchè il regime di Gheddafi dovette consegnare l’organizzatore dell’attentato, assumersi la reponsabilità dello stesso, ed indennizzare le vittime.

Qui si sta semplicemente invocando buon senso, e rimandare tutto alla verifica degli elementi tecnici che siano verificabili dalle parti, come in qualsiasi processo.

Posizione che venne difesa anche dal sottosegretario Steffan de Mistura e dall’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi ma di cui, con il passare del tempo, s’è parlato sempre meno. Adesso torna d’attualità mentre è per gennaio il prossimo appuntamento decisivo sul destino giudiziario dei due soldati italiani.

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