CoppaAmerica. Trionfo del Cile, l’Argentina si arrende ai rigori

La fiesta roja (immagine presa dahttps://www.facebook.com/copa.america.en.chile.2015/timeline )
La fiesta roja (da www.facebook.com/copa.america.en.chile.2015)

Il Cile ce l’ha fatta. Per la prima volta nella sua storia riesce a vincere la Coppa America, ed il suo primo trofeo, battendo ai rigori l’Argentina. Ancora un buco nell’acqua, invece, per la Selecciòn stavolta guidata dal Tata Martino, che dopo un anno dalla finale mondiale del Maracanà contro la Germania, si trova a rivivere l’incubo di arrendersi a un passo dal traguardo, con i suoi pezzi da 90 incapaci di incidere come ci si attendeva da loro.

La roja. Sarà stata la meglio gioventù di tutta la storia calcistica cilena, sicuramente la fame, senza dubbio il fattore campo e pure un po’ di fortuna e qualche svista arbitrale a favore (tipo le provocazioni moleste di Jara a Cavani nei quarti), e mettiamoci anche il demerito dell’Argentina confermatosi gigante dai piedi d’argilla. Fatto sta che da sabato sera, con epicentro l’Estadio Nacional di Santiago, si è irradiata la fiesta roja in tutto il Cile, che aspettava una vittoria di popolo da oltre un secolo. Nemmeno Zamorano e Salas, due leggende andine,erano riusciti a fare tanto.

La meglio gioventù cilena stavolta contava su un collettivo di individualità eccellenti, in grado di portare in campo la fame dei tifosi che infuocavano gli stadi del torneo. A cominciare dalla porta, difesa dal blaugrana Bravo, per andare ai redivivi Isla e Medel, riscopertosi roccioso ed insuperabile difensore centrale dopo una vita a pensarsi centrocampista centrale. E poi el Mago Valdivia, uno dei migliori dello scorso mondiale, che ancora non ci capacitiamo del fatto che a 31 anni non abbia mai deliziato il palato fino e spesso presuntuoso di noi europei con la sua classe e i suoi passaggi meravigliosi e illuminanti. O Arturo Vidal, genio e sregolatezza. E i gol e le magie in attacco di Edu Vargas e Alexis Sanchez. Classe, grinta, identità e cattiveria sudamericana inserite in un’idea di gioco, che poi è ciò che è mancato agli arci-rivali argentini.

La Selecciòn. Era la grande favorita del torneo. Molto più del Brasile, presentatosi ai nastri di partenza ancor più ridimensionato dopo la delusione del mondiale casalingo di un anno fa. Molto più dei cafeteros, cioè quella Colombia che è stata la sorpresa dei mondiali e che stavolta proprio l’albiceleste ha eliminato ai quarti. L’Argentina non alzava il trofeo dal ’93, e stavolta c’era tutto per vincere : campioni, cambio in panchina, voglia di rivincita e soprattutto tanta fame. Come al mondiale, però, fino ai quarti ha sonnecchiato limitatandosi a fare il compitino striminzito, per poi esplodere in semifinale con un roboante 6-1 al Paraguay, che ai rigori aveva distrutto i sogni dei calciofili di tutto il mondo di vedere scontrarsi i due grandi titani Seleção e albiceleste. E poi, non ultimo, lo stimolo di affrontare l’odiato Cile in finale, e in casa loro.

Le Malvinas. Sì perché i due paesi confinanti si portano dietro vecchi rancori da diverso tempo, e stavolta non è il calcio il motivo del contendere. C’entra la cicatrice lasciata dalla guerra delle Falkland (o Malvinas) tra Argentina e Gran Bretagna del 1982, ed il ruolo attivo e decisivo del Cile di Pinochet a fianco degli inglesi. Come era prevedibile, gli argentini da allora se la sono legata al dito e lo si è notato anche nei canti delle hinchadas in trasferta oltre la cordigliera. Uno su tutti, un pesantissimo “Chile decime que se siente” (sulle note di “Bad Moon Rising” dei Creedence, se non la conoscete correte ad ascoltarla) mutuato da quello goliardico e tutto calcistico dedicato ai brasiliani e diventato un tormentone l’anno scorso al mondiale : gli argentini, però, stavolta hanno lasciato decisamente da parte la goliardia per far spazio al rancore, dando senza giri di parole dei traditori e codardi ai cileni amici degli inglesi e godendo dei danni provocati dagli tsunami che colpirono le coste andine quasi un decennio fa.
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La partita. L’intensità e la tensione si tagliavano con un coltello, in campo come sugli spalti (basterebbe chiedere ai parenti di Messi, costretti a cambiare posto), ma sotto il profilo del gioco non è che sia stata una gran partita, come spesso accade alle finali. Molti i calci e gli interventi ruvidi – come una combo calcio sulle costole+ pugno da parte di Medel a Messi – , poche le occasioni da gol. Nel primo tempo Romero vanifica un sinistro al volo di Vidal al termine di un’azione totalmente disordinata, mentre qualche minuto dopo è il collega cileno Bravo con i suoi guantoni ad impedire sulla linea che Aguero devi in rete la punizione di Messi. Lo stesso Bravo si ripete poi a fine primo tempo con un intervento quasi miracoloso sul subentrato Pocho Lavezzi (al posto del fondamentale Di Maria, infortunatosi),e Romero dall’altra parte su Sanchez. Resta 0-0.

Nella ripresa il Cile attacca con maggiore intensità, affidandosi alla premiata ditta Sanchez-Vidal, mentre l’Argentina resta imbrigliata nella confusione e nelle maglie della difesa cilena. A 5 minuti dalla fine lo spirito di Baggio si impossessa di Sanchez il quale, senza nemmeno guardare la porta, gira al volo un cross di Silva che finisce a tanto così dalla porta di Romero, proprio come il Divin Codino ai mondiali di Francia. Al 92’ è l’Argentina a divorarsi il match ball, con Higuain che dalla linea di fondo tenta disperatamente di deviare in rete un pallone pericolosissimo di Lavezzi, che aveva attraversato tutta l’area di rigore roja, bloccando il battito del popolo del Cile per un paio di secondi buoni.

Ai supplementari, Cile e Argentina sembrano due pugili che fino a quel momento se le sono date di santa ragione, pieni di lividi e in debito d’ossigeno e lucidità e che, al momento di scagliare un destro all’avversario, barcollano e colpiscono a vuoto. Insomma, un bestiario di errori da entrambe le parti, su tutti Mascherano che ad un certo punto sembra ce la metta tutta per regalare la coppa ai cileni. Nonostante ciò, si va ai rigori.

La cinica lotteria dei calci di rigore. E dalla maledizione di Messi, che proprio non riesce ad allargare anche alla Selecciòn le scorpacciate di trofei di Barcellona, si passa a quella di Higuain. “Pipita non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore” direbbe De Gregori. Ma come nella partita-spareggio per la Champions contro la Lazio, Higuain fallisce di nuovo la grande occasione e calcia alle stelle il pallone, nel boato dello stadio. Banega, poi, tirerà tra le braccia di Bravo il terzo rigore mentre il Cile crampi e sudore non ne sbaglia uno, e così si presenta Alexis Sanchez sul dischetto. Cent’anni di attesa in undici metri, e quell’incosciente di Sanchez che fa? Prova il cucchiaio basso, centrale, mentre Romero cerca di emulare Angelino Alfano buttandosi a sinistra. Il pallone gonfia la rete, e il Cile finalmente può esplodere di gioia per il primo successo della Roja.

La Selecciòn, invece, un anno dopo si ferma di nuovo lì, proprio ad un passo dal traguardo. Ancora una volta la rude, sorniona e anarchica classe spesso fine a sé stessa degli argentini si ritrova a sbattere violentemente il muso contro l’organizzazione di un collettivo di lusso, sia esso la Mannschaft o il Cile, e finisce a rimpolpare la schiera dei magnifici perdenti, fatta di campioni mitici e squadre leggendarie smarritesi nell’ombra dell’indeterminatezza pallonara, come la grande Ungheria di Puskas, l’arancia meccanica olandese di Crujiff, la Svezia di Liedholm, l’Italia di Sacchi e Baggio o quella di Riva, Rivera e Mazzola, e tante altre, che ora sembra annoverare anche la sfortunata e maledetta Argentina di Messi, ancora una volta mai profeta in patria.

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Michele Mannarella

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