Cultura (di F.Cardini). Addio a Mario Sanesi, giornalista e scrittore libero: “Uno dei nostri”

Le riviste non conformi per eccellenza

Da tre o quattro giorni, qui in Brasile dove mi trovo per il mio lavoro, la sempre gradita voce dell’amico carissimo Amerino Griffini mi ha raggiunto per mettermi però stavolta a parte di una triste notizia: quella della scomparsa – ne ignoro il giorno esatto – di un comune amico, uno dei nostri, della cerchia di quella ventina più o meno di persone che forse non sono, ma che comunque si stimano happy fews, che sono più o meno coetanei (ma in una fascia che comprende una ventina circa di anni: diciamo la generazione dei nati fra un po’ prima del ’40 e un po’ prima del ’60), che hanno fatto esperienze analoghe o parallele e che si riconoscono, con qualche variabile, nella medesima Weltanschauung. Diciamo una generazione i più anziani della quale, nei primi Anni Sessanta, percorrevano inquietamente la cultura marginale del Kulturpessimismus (i nipotini squinternati di De Maistre e di Donoso Cortés; i figliastri indisciplinati di Spengler e, perché no?, perfino di Giuliotti; magari i cuginastri di Guénon e di Evola), mentre i più giovani – pseudosessantottastri a modo loro – restano, sono e saranno per sempre (per quanto tra loro ci siano degli illustri cattedratici) degli orfanelli di John Ronald Reuel Tolkien e di Clive Staples Lewis.

Insomma, cari amici che mi leggete per affetto, per stima, per curiosità (e non-cari che mi leggete per malevolenza), chi siete-io non lo so, chi siamo-ve lo dirò: siamo gente uno dei quali, pubblicando una ventina di anni fa un libro di saggi autobiograficamente, impietosamente (e spavaldamente) intitolato Scheletri nell’armadio, lo dedicava a José Antonio Primo de Rivera e a Ernesto “Che” Guevara de la Serna. Da allora abbiamo più volte cambiato idee e pareri, ci siamo corretti, ci siamo messi in discussione, abbiamo sovente mutato anche di centottanta gradi le nostre rispettive e non sempre concordi valutazioni di questo o di quell’evento, di questo o di quel fenomeno, di questo o di quel personaggio, abbiamo litigato e ci siamo presi in giro: ma siamo sempre restati gli stessi, non abbiamo mai cambiato né casacca né bandiera.

Mario Sanesi era uno di questi, uno di noi. Non ricordo con precisione quanti anni avesse: si laureò a Firenze sotto la mia guida, mi pare verso la fine degli Anni Settanta o forse i primi Anni Ottanta. Si prese senza fiatare e senza discutere una tesi lunga, complessa, durissima, che comprendeva la trascrizione completa di un manoscritto di fine Trecento: uno dei codici del Liber secretorum fidelium crucis del veneziano Marino Sanudo Torsello detto “il Vecchio”, ispido e complesso zibaldone primotrecentesco nel quale, spiegando al papa come organizzare una crociata, gli si dimostrava ch’essa era praticamente impossibile presentandogli perfino il conto quotidiano di quanto costava mantenere giornalmente un rematore di galea in termini di biscotto, cacio e vinaccio. Non era affatto sadismo, da parte mia, il rifilargli un mattone del genere: il fatto è che io avevo visto in lui (e non mi sbagliavo) la stoffa dello studioso e speravo di poterlo lentamente avviare alla carriera accademica. A quei tempi, trenta-trentacinque anni fa, in Italia ciò era ancora possibile.

Ma non ce la feci. Avevo sbagliato una cosa, valutando quel ragazzo riservato, austero, sincero, d’una serietà che qualche volta – pur nella sua spontanea simpatìa – ci metteva tutti perfino un po’ a disagio. Quel giovane che amava stare in disparte e che pure era molto coraggioso, che amava studiare ma che non metteva mai in mostra il suo sapere, era qualcosa di più che un “timido” come qualcuno lo giudicava: il suo riserbo nasceva da un’autentica, naturale e anche ben coltivata assenza di ambizione nel senso negativo di tale termine. Se Mario aveva ambizioni, e ne aveva, le riservava al suo intimo: a migliorarsi. Non riuscii mai a convincerlo a partecipare alla vita comunitaria degli aspiranti borsisti, assegnisti o contrattisti, la variopinta fauna del sottobosco accademico, di quelli che anni prima sarebbero stati “assistenti”, anni dopo “ricercatori” e quindi “precari”. Fece con ottimo successo i suoi concorsi nella scuola secondaria e per tutta la vita fece quel che aveva sempre voluto fare, il professore. Fu un ottimo, scrupoloso, serissimo insegnante. La sua onestà a trecentosessanta gradi, quindi anzitutto onestà intellettuale, faceva di lui un cittadino perfetto e un amico impareggiabile, di quelli ai quali puoi tranquillamente confidare chiavi di casa e codici della carte di credito. Di quelli che non ti dimenticano, non ti abbandonano, non ti tradiscono.

Forse aveva un solo difetto. Ne abbiamo tutti. Non quello di partecipare sempre con un po’ più di discrezione di quanto sarebbe stata necessaria alle nostre rare periodiche riunioni durante le quali, magari a tarda ora e dopo qualche bicchiere in più, riemergeva in (quasi) tutti noi quel tanto di mai sopito spirito goliardico: conoscevamo bene il suo modo di ridere a crepapelle, che consisteva nel piegare leggermente gli angoli della bocca in quel suo volto bello, pulito ma precocemente scavato dalla malattia lenta e crudele che lo aveva colpito precocemente e con la quale egli ha coraggiosamente convissuto, lottando senza autocommiserazione, senza ostentazione, per lunghi anni. Senza far scenate, senza chiedere aiuto, senza recriminazioni. Senza arrendersi. Mai. Restando lucido, cordiale, disponibile. Fraterno.

Il suo solo difetto, dicevo, era forse (forse) quello di una qualche mancanza nella stima di sé. Questa persona correttissima, che non amava mai dir male di nessuno o canzonare nessuno, probabilmente non ha mai capito fino in fondo quanto valesse. Forse perché la sua intelligenza gli aveva dato un responso che la sua modestia gl’impediva di accettare.

Nei suoi confronti, ho il solo rammarico di non essere forse riuscito a fargli capire quanto dal canto mio invece lo stimassi e quanto gli volessi bene. Forse avrei dovuto incoraggiarlo di più, “pungolarlo” come si dice. A modo mio, anche se in un modo molto differente dal suo (al punto che troppi ritengono, sbagliando, il contrario), sono un timido anch’io: per quanto abitualmente nasconda la mia timidezza dietro giovialità e perfino esibizionismo di facciata. Forse valutò la mia distanza come effetto di delusione per la sua performance universitaria, ch’era stata invece eccellente. In tanti, lunghi anni, nonostante frequentassimo lo strettissimo giro di tanti e tanto stretti amici comuni, non sono mai riuscito a farmi dare da lui del “tu” né a farmi chiamare se non “professore”. Lo diceva con affetto, con confidenza addirittura: ma continuava a marcare la distanza. Credetti che quello fosse il limite della sua discrezione, che sarebbe stato scorretto da parte mia cercar di forzare. Forse mi sbagliavo.

Non ti dico addio, Mario. Ciò contrasterebbe con la nostra comune visione del mondo. Del resto, tu resterai sempre con noi. Sarai sempre là, insieme con tutti noi, camminando per strada o passeggiando in una libreria o seduti in cerchio su un prato a discutere e a ridere o a mensa, la sera, davanti a un bicchiere di vino rosso e ai nostri ricordi, ai nostri sogni, alle nostre speranze di vecchi ragazzi. Sarai sempre là con noi. Presente.

Franco Cardini

Franco Cardini su Barbadillo.it

Exit mobile version