Il caso. Da Poletti ai Goonies: perché ai giovani non servono i lavori forzati

imageA questi tempi di revival dickensiano, tra licenziamenti senza causa e assunzioni senza tutele, mancava proprio l’elogio del lavoro minorile: per fortuna ci ha pensato il ministro Poletti. La proposta non è nemmeno nuova, così come i presupposti da cui muove: tre mesi di vacanze a scuola sono troppi, si dice. «Meglio impiegarne uno a fare formazione» perché del resto, fa già notare qualcuno rispolverando il fatidico mantra del “ce lo chiede l’Europa”, le nostre pause estive sono le più lunghe.

Pare dunque che nel Paese con una disoccupazione giovanile al 41,2% (qui si parla di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che il lavoro lo cercano davvero), la più bassa percentuale di laureati tra i ventotto Stati dell’Unione Europea e un capitale di cervelli in fuga che secondo i dati Ocse è costato 23 miliardi di euro solo tra il 2008 e il 2014, ci sia una grande urgenza di mandare a lavorare chi non ha mai chiesto di farlo. Ma di che “formazione” parla il ministro, di grazia? Stage retribuiti nei laboratori delle aziende high tech? Tirocini in vista dell’inserimento lavorativo dopo il diploma? Scambi con l’estero per migliorare la conoscenza delle lingue e dei sistemi di produzione?

Tutt’altro, spiega Poletti: «I miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse e sono venuti su normali», sicché non sarà un dramma se un ragazzino invece «di stare a spasso per le strade della città va a fare quattro ore di lavoro». Ecco dunque la geniale intuizione: mandiamo questi capelloni scioperati a raccogliere la frutta, così la smetteremo anche di chiederci se esistano lavori che gli italiani non vogliono più fare, obbligando i figli degli italiani a farli. Si potrebbe innescare una virtuosa competizione salariale con i clandestini pagati in nero e accampati nelle tendopoli della Caritas, in linea con lo spirito del Jobs Act.

Intendiamoci, il lavoro extrascolastico (volontario) può essere un’esperienza utile e stimolante, così come possono esserlo i vecchi InterRail, le vacanze studio e – perché no? – le estati “a spasso per le strade”. Se Poletti avesse visto meno capolavori del realismo socialista e più teen movies saprebbe quel che è noto a tutti noi figli degli anni Ottanta, cioè che l’ozio è il punto di partenza delle più belle avventure giovanili: da Stand by me ai Goonies, da Breakfast Club a E.T. passando per Navigator, la cultura pop pullula di ottimi esempi di adolescenti sottratti al controllo scolastico e pronti a cacciarsi in ogni guaio, accumulando esperienze belle e brutte che si porteranno dentro per la vita. Quello che in fondo dovrebbero fare tutti i ragazzi, compresi i figli di Poletti.

Viviamo in una società di eterni teenagers che coltiva, per paradosso, la tremenda ansia di “responsabilizzare” i suoi figli fin dalla prima infanzia, tra lezioni di musica e sport, rientri e doposcuola, corsi di recupero, tesserini elettronici in classe e telecamere di sorveglianza. A ciò si aggiunge, nel sentire comune, un’idea della scuola come istituzione a metà tra un falansterio per ragazzi e un’agenzia di collocamento per quei farfalloni laureati dei docenti, coi loro famigerati “tre mesi di ferie” (in realtà meno di due, al netto delle commissioni d’esame, degli scrutini e delle riunioni). È questo il brodo di coltura della proposta di Poletti, che Fulvio Abbate ha ben inserito in una traiettoria storica dal maoismo al dopolavoro di Fantozzi.

Forse ci si dimentica che l’adolescenza è una fase della vita segnata da obblighi ed incombenze anche più stringenti di quelli a cui si farà fronte nell’età adulta. Risparmiamole almeno il sacrificio rituale al dio fatti-il-culo, il moloch di cui De Andrè invitava a diffidare già molto tempo prima della crisi.

Paolo Montero

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