Musica. Quarant’anni e non sentirli: tra attualità e note della Compagnia dell’Anello

compagnia dell'anelloA volte ci vogliono molti e molti anni, prima che una certa potenzialità si realizzi. Nel caso delle persone si tratta, di solito, di qualche talento giovanile che per un motivo o per l’altro non ha avuto modo di manifestarsi, o di svilupparsi appieno. Nel caso delle canzoni – ed è quello che avviene per la maggior parte di quelle che (ri)troviamo in quest’ultimo album della Compagnia dell’Anello – si tratta invece di vecchie stesure che vengono recuperate. Rimodellate. Riportate a nuova vita.

Eccoli qua, finalmente: quei brani così spontanei/ingenui/battaglieri sono giunti a compimento. I ragazzi di un tempo sono tornati con noi. Solo che nel frattempo sono cresciuti. Si sono irrobustiti. Hanno lo stesso slancio di allora, ma anche un’aria più solida. Più matura. E anche quando dicono esattamente le stesse frasi, lo fanno con una consapevolezza superiore.

Non sono più le intuizioni su un mondo che è ancora tutto, o quasi, da esplorare e comprendere, ma le cognizioni che si sono temprate nel corso di chissà quanti viaggi, tra entusiastiche partenze verso il sogno e ritorni, anche amari, alla realtà. A quella realtà, innanzitutto collettiva, che ci avvolge nostro malgrado e che dipende dalle scelte di altri, a cominciare da quelli che tirano i fili dall’alto fino ai troppi, via via più in basso, che per connivenza o acquiescenza glieli lasciano tirare. La politica dei Settanta era infuocata dagli ideali; quella dei decenni successivi è tenuta accesa da un miscuglio di ambizioni e di interessi: il fuoco che si sprigiona è forse ancora più potente ma, come nei termovalorizzatori che sono sorti nel frattempo e che vengono spacciati per una grande risorsa, è alimentato con dei rifiuti da discarica.

Una delle peggiori mistificazioni, quindi, è fingere che tra la militanza dell’epoca e i riposizionamenti successivi all’ombra del potere vi sia comunque una sostanziale continuità. Non è così. Chi si batteva per una società diversa e migliore, che per prima cosa avrebbe dovuto affrancarsi dal dominio del grande capitale e dalle ingannevoli promesse del liberismo, può essersi ricollocato nel quadro politico della Seconda Repubblica solo a patto di abiurare ai suoi valori originari. Non si è “aggiornato”. Ha tradito. Oppure si è reso conto di essersi sbagliato, non tanto nelle analisi sul mondo circostante ma su sé stesso e sulla sua vera natura. Vuoi per debolezza, vuoi per opportunismo, è rientrato nei ranghi dell’establishment e si è adeguato ai suoi dettami, ai suoi obiettivi, alle sue pratiche.

Tornando alle canzoni – alle canzoni della Compagnia dell’Anello – è quello che viene espresso benissimo nella splendida “Anche se tutti… noi no!”. Che non a caso apparve intorno alla metà degli anni Novanta e che centrava alla perfezione, due decenni fa, la questione fondamentale: «C’hanno detto “Ragazzi, qualcuno si era sbagliato, adesso tutto cambia, viva il libero mercato”».

Ergo, fuori dalle palle – ora come allora – tutti quelli che hanno preferito allinearsi al Pensiero unico neoliberista e che tirano acqua al suo mulino, o per meglio dire alla sua macina. Visto che se ne tengono stretti i vantaggi, quand’anche modesti o persino minuscoli, abbiano se non altro quel minimo di onestà intellettuale che impone di assumersi la responsabilità delle proprie scelte di campo. Il buffet ha le sue attrattive, ma a bocca piena i richiami ideali escono fuori malissimo.

 “Quadraginta annos in unum fideles”: dovrebbe bastare il titolo del cd, a spazzare via il rischio di ogni possibile equivoco. Ma per chi fosse così sciocco da credere che questo sia solo una specie di slogan tanto altisonante quanto superficiale, in perfetto stile “politique politicienne”, un altro segnale decisivo viene dal fatto che la raccolta non si limita a riproporre/reinventare alcuni brani risalenti agli esordi (quando la Compagnia dell’Anello era ancora di là da venire e al suo posto c’era invece il GPDPN, Gruppo Padovano Di Protesta Nazionale), ma ne aggiunge altri due di fattura assai più recente e, in particolare, la conclusiva “Kali Yuga”. Il messaggio è chiarissimo: non stiamo sfogliando l’album dei ricordi in una chiave sentimentale e sconsolata, che equivale a un delicato, commosso, imbelle epitaffio sul “caro estinto”. All’opposto, stiamo ripristinando le connessioni profonde tra la fase embrionale che ha generato i primi cinque pezzi e quella ormai adulta, nel senso migliore del termine, che è sopravvenuta in seguito.

Non si tratta affatto di dare una rinfrescatina sonora a quelle ballate d’antan – come se fossero fotografie in bianco e nero da convertire disinvoltamente in immagini a colori, grazie alle magie prefabbricate di Photoshop – ma di riversare una perizia a suo tempo inarrivabile negli stampi primitivi in cui esse furono forgiate. Parlare semplicemente di nuovi arrangiamenti significherebbe fare torto non solo alle qualità di tutti i membri della Compagnia, che del resto avevano già avuto modo di sfoggiare in concerto delle versioni molto più elaborate, ma soprattutto allo straordinario lavoro di postproduzione che è stato svolto da Alessandro e Andrea Di Nunzio. I quali, “dall’alto” dei loro trent’anni (e quindi con una lucidissima padronanza delle tendenze musicali degli ultimi due decenni) hanno saputo trasformare in composizioni brillanti, e talvolta sorprendenti, le cadenze fatalmente schematiche degli originali.

“Quadraginta annos”, dunque, è allo stesso tempo un grande riconoscimento al passato e una potente proiezione nel presente. Da un lato ci mostra che cosa avrebbero potuto diventare certe canzoni di buona tempra ma dalla realizzazione ancora approssimativa, se viceversa ci fossero state le capacità e le condizioni necessarie per affinarle quanto serviva a metterle in grado di competere con quelle che venivano pubblicate nei canali ufficiali, e che tanto hanno contribuito a diffondere idee “di sinistra”; dall’altro ci ricorda, però, che il professionismo è nulla, se non poggia su salde motivazioni ideali e su un’autentica ispirazione.

C’è un filo di rimpianto, per quello che poteva essere e non è stato. Ma c’è tutto l’orgoglio di aver fatto del proprio meglio, lungo questi quattro decenni, per mantenersi integri. E, ma sì, la soddisfazione di esserci riusciti.

@barbadilloit

Federico Zamboni

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