Chi pensava che Christopher Nolan avesse scoperto tutte le sue carte con Memento e Inception, era indubbiamente fuori strada. Dopo averci fatto navigare a vista prima nella dimensione della memoria, poi in quella onirica, con Interstellar il regista britannico ci ha infatti regalato un viaggio paradossale e straordinario oltre i confini dello spazio e del tempo, al cui centro, come in ogni trama arzigogolata che si rispetti, c’è l’essere umano, con tutto ciò che inevitabilmente ne consegue.
In un futuro non specificato, dove la storia è credenza e il presente sopravvivenza, l’umanità è a rischio estinzione: enormi tempeste di sabbia stanno infatti mietendo vittime e distruggendo i raccolti, ultima fonte di sostentamento rimasta. Cooper, ex ingegnere della Nasa prestato all’agricoltura, interpretato da un Matthew McConaughey in odore di secondo Oscar consecutivo, è rimasto solo col suocero a crescere i figli Tom, 13 anni, e Murph, 10.
Ed è proprio sul rapporto tra quest’ultima e il padre che Nolan costruisce un racconto in cui mette in discussione tutte le leggi che regolano il mondo, lasciando fondamentalmente allo spettatore la loro reale interpretazione e la scelta finale su quale sia quella suprema. Si alternano tutte, o quasi, sotto gli occhi di chi guarda: leggi della fisica (su tutte la gravità), quella di Murphy, l’istinto di sopravvivenza, la forza dell’amore. Ogni personaggio, nel momento più critico, è chiamato a scegliere di obbedire ad una sola di esse, senza che gli sia mai data una seconda possibilità. E così, quando in un modo molto particolare Cooper si trova nella situazione di dover partire per una missione interstellare della ritrovata Nasa alla ricerca di un nuovo mondo per i terrestri, “tutto quello che può succedere, succede”. Ed è qui, nel distacco fisico tra padre e figlia, che si compie la meraviglia narrativa di Nolan: nessuna dimensione conosciuta, sia essa lo spazio, il tempo o addirittura una quinta in cui il primo ed il secondo si intrecciano diventando una cosa sola, è capace di misurare realmente i sentimenti più profondi e l’essenza stessa dell’essere umano. E nessun uomo può davvero comprendere le ragioni e le scelte di un altro uomo.
Per gran parte del film ci si ritrova così a interrogarsi invano su chi tra i protagonisti assuma il comportamento più affine a quello che, in medesime situazioni, sarebbe stato il proprio: se Cooper, mosso dall’amore per i propri figli, o il professor Brand (un grandioso Michael Caine), spinto da quello per la razza umana; se Amelia, una comprimaria Anne Hathaway, mossa dall’amor perduto, o il dottor Mann (Matt Damon) spinto dall’amor proprio; per finire inevitabilmente ammirati dalla crescita di Murph (da bambina Mackenzie Foy, da adulta Jessica Chastain, da anziana Ellen Burstyn), lancetta di un orologio che segna ineluttabile lo scorrere del tempo, ma che nel suo quadrante muove coraggiosamente i passi che il destino (o più esattamente chi per lui) traccia davanti a lei. E così lo spettatore, accompagnato dalle note magnifiche del solito Hans Zimmer, viene risucchiato nel vorticoso buco nero della vita e delle emozioni umane, per rendersi conto che al di là di qualsiasi dimensione, si è sempre e soltanto quel che si osa essere. Stavolta anche con qualche certezza in più, senza alcun giro di trottola.
@AlessandroPat