Il diario di Enrico Nistri. La destra nella cronaca del ‘funerale’ di An (che non risorgerà)

anCari amici di Barbadillo,

da tempo Michele De Feudis mi chiede di scrivere per voi. Ve lo meritate, per il vostro impegno e la vostra passione; sono io, semmai, che non me lo merito, perché dinanzi alla politica sono sempre più scettico e pigro. Anche per questo, invece di scrivervi un articolo sulle elezioni e sul ruolo di una destra che si è presentata alle urne divisa in almeno tre tronconi, vi ho ritagliato due pagine del diario che tengo ininterrottamente tutti i giorni da ormai ventisei anni. Non sono due pagine qualsiasi: sono la cronaca del 21 e del 22 marzo 2009, quando alla Fiera di Roma si celebrò il funerale di Alleanza Nazionale. Rileggendo com’è morta An, mi sono reso conto di come sarebbe impossibile farla resuscitare. Spero naturalmente che la pensiate in maniera diversa da me.

Enrico Nistri

Roma, 21 marzo 2009. Arrivato puntuale a Termini, mi sposto su un trenino che costa solo un euro perché è considerato trasporto urbano alla nuova Fiera di Roma: una landa desolata e deserta, con enormi capannoni che si ergono fra le sterpaglie. In uno di essi, che mi tocca raggiungere dopo aver fatto un chilometro a piedi su di un’assurda passerella, si celebra il funerale di Alleanza Nazionale. Ma non solo di Alleanza Nazionale. Delle mie idee, dei miei sogni, di una vita, degli errori marchiani e delle illusioni geniali con cui mi ero illuso di darle un senso. Ma è un funerale senza lacrime: la morte era scontata, An è perita per lisi, non per crisi. Tutti in fondo avvertono con un po’ di sollievo il fatto di non sentirsi più vincolati dalle imprevedibili e umorali esternazioni di Fini.

Avevo previsto un funerale di seconda classe; invece è un funerale di terza, forse di quarta. Senza cavalli bianchi, senza una carrozza nera con stemma baronale e senza nemmeno un furgone cromato. Solo una bara zincata simile a un salvadanaio in cui i soliti noti dai nomi impronunciabili hanno riposto i soldi del finanziamento pubblico, disprezzati ma tesaurizzati, e le sedi, gli immobili del partito, comprati perché nessuno voleva affittare un appartamento al vecchio Msi, coi soldi di tanti pensionati che pasteggiavano col caffellatte pur di rispondere alle sottoscrizioni del “Secolo d’Italia” per tenere accesa quella Fiamma che ci si accinge a spegnere senza rimorsi. L’organizzazione del congresso è sciatta, la scenografia modesta, tutto è scomodo, anche andare a prendere un caffè, e i disagi sono accentuati dal vento diaccio e dispettoso che penetra negli abiti dei delegati nei trasferimenti da un padiglione all’altro. Anche a Bologna, nel 2002, il congresso era stato organizzato in una squallida periferia suburbana, ma almeno i locali fieristici erano stati ingentiliti da un’organizzazione più che efficiente accurata. Era il congresso di un partito che viveva, non quello di un partito che si accinge a sciogliersi senza troppi rimpianti.

Anche per questo il congresso si segnala più per gli assenti che per i presenti. Non c’è Veneziani, che nel 1994 fa faceva la fila con me per partecipare ai lavori dell’assemblea costituente all’Hotel Ergife. Non c’è Malgieri, che forse non aderirà al nuovo partito, e che quindici anni fa era l’animatore delle scelte culturali di An. Non c’è Fisichella, che all’Alleanza nazionale diede il nome e le idee, e fu messo in condizione di andarsene dalla maleducazione di qualche ragazzaccio mai cresciuto. Non ci dovrei essere nemmeno io. Quando arrivo, mi colpisce l’assenza di nomi e volti familiari, coloro che mi piacerebbe incontrare per simpatia o per opportunità. Anche chi è presente è come assente, al primo pretesto va via. Michele De Feudis è a vedere non so che partita, Aldo Pecorella va subito in albergo, Giuseppe Valditara ci dovrebbe essere ma non si vede. Mi attacca un lungo bottone in un italiano un po’ infranciosato Bruno Zoratto, fratello dello storico collaboratore di Tremaglia; insegna architettura a Parigi, ma per alcuni anni ha studiato a Firenze. Così passo un po’ di tempo, prima di fare opportunisticamente la coda per comprare l’ultimo libro di Gasparri, che ieri mi ha citato su “Libero”, ricevendone una bella dedica. Alla presentazione incontro Mario Bozzi Sentieri – che conoscevo, ma solo di firma, dai tempi di “Diorama” – e Alessandro Campi, direttore della Fondazione Fare Futuro. Con loro ceno a un discreto buffet in un algido padiglione, incontrando finalmente un po’ di persone. Rivedo Bartolo Sammartino, che mi fa un sacco di complimenti con il suo bel contorno di amici siculi, sempre pessimista e sempre presente, e faccio conoscenza col deputato umbro e un po’ umbratile Benedetto Della Vedova; scettico e un po’ blâsé, esprime le sue teorie sull’esperienza del Pdl, che in pubblico tiene accuratamente per sé. In effetti l’unico che può esprimere  pubblicamente le sue riserve è Roberto Menia, che effettivamente ha fatto un discorso molto applaudito, in cui sosteneva che l’unificazione sarebbe dovuta e potuta avvenire solo sulla base di un patto federativo. Ma può farlo – osserva il mio commensale – perché fa le immersioni subacquee con Fini. Più in basso di così il partito non poteva scendere, sotto il livello del mare, e non solo…

Dopo la cena mi reco con Campi al grande albergo, del gruppo Sheraton, in cui siamo  alloggiati. In realtà Campi sta nell’ala più bella, di gusto. A me tocca una modesta stanza nella dipendenza, strano connubio di ipertecnologia Usa (anche per salire in ascensore ci vuole la scheda) e di italica inefficienza (lo scarico della vasca da bagno è difettoso). Crollo quasi dal sonno, ma a mezzanotte il compagno di stanza che mi è stato assegnato mi desta per chiedermi se ho chiesto in portineria la sveglia…

 

Roma, 22 marzo

Risveglio con una sgradevole sorpresa. Ho una sensazione mai provata: giramento di testa. Che sia stato il cibo di ieri sera? A meno che non abbia somatizzato un dolore che non voglio ammettere nemmeno con me stesso. Non senza forza di volontà, comunque, mi alzo e faccio la doccia, mentre il mio compagno di camera russa pesantemente. Rinuncio però alla mia veterofascista ginnastica quotidiana.

Alle otto e mezza viene a prendermi Campi. Parliamo a lungo del più e del meno. Mi chiede perché non ho provato la carriera universitaria. Gli racconto di quando un futuro comico che sarebbe andato per la maggiore mi buttò fuori dalla facoltà di Lettere di Firenze dopo che avevo commesso l’errore di candidarmi nel Msi alle elezioni del 1975 e poi del mio disgusto per l’ambiente accademico e della mia speranza di andare presto in pensione. A mia volta, per par condicio, gli domando perché ha rinunciato ad assumere un ruolo politico in An, pur essendo entrato nelle grazie di Fini. Fra ex autisti personali e facchini, un professore universitario non avrebbe fatto brutta figura. Certo, dopo una legislatura, avrebbe corso il rischio di apprendere dal “Corriere della Sera” di non essere stato ricandidato, com’è successo al mio amico Paolo Armaroli nel 2001. Mi spiega che aveva già avuto notizia anche lui di intellettuali utilizzati, strizzati e poi buttati via e ha preferito tenersi in disparte. Non posso dargli torto, a meno che anche per lui non valga la regola del nolo acerbam sumere

Arrivato alla Fiera, mi siedo in uno dei primi posti, accanto a Dario Vermi, uno dei pochi signori rimasti nel partito. Tutti lo chiamano avvocato, anche se è stato un semplice spedizioniere, e se lo merita, non solo perché porta con eleganza i suoi settant’anni e perché ama la musica e l’arte di un amore disinteressato che vale più di tante lauree. È stato uno dei pochi amici presenti due anni fa ai funerali di Sigfrido Bartolini. È stato vicepresidente della provincia di Milano e poi ha lasciato la politica, senza recriminazioni. Vive diviso fra il capoluogo e la gozzaniana e lacustre “Belgirate tranquilla”, occupandosi di concerti.

Il concerto comincia a rilento, ma con un evento nobilmente simbolico: il saluto del figlio di Giuseppe Mazzola, il carabiniere in congedo ucciso nel 1975 dalle Brigate Rosse nella sede del Msi di Padova. Peccato che Servello invece che come il figlio lo presenti come il padre e che, mentre l’orfano di una delle prime vittime del terrorismo comunista si rivolge all’uditorio con parole toccanti, il ministro Andrea Ronchi distribuisca sorridente i posti ai maggiorenti del partito arrivati in ritardo. Quando i ministri fanno i maggiordomi, è meglio chiudere il palazzo.

Un altro momento commovente è il discorso di Mirko Tremaglia. È l’ombra di se stesso, tutti lo danno per spacciato, ma vuole parlare lo stesso, e parla bene, come sempre. Vorrebbe salire sul podio, ma gli organizzatori hanno paura che scivoli e lo fanno parlare dal palco. Come commenta spietatamente Vermi, meglio evitare un funerale piccolo  nel funerale grande…

Come capita sempre, il pubblico, dapprima poco numeroso, si fa più fitto, soprattutto vicino al palco, man mano che si avvicina l’intervento del leader massimo, ormai tale soltanto per statura fisica. Fini parla, ma non infiamma. Comincia bene, rievocando l’epopea del Msi, della Giovane Italia, del Fronte della Gioventù, ricordando i sacrifici e i caduti. Finisce male, prospettando il futuro di un’Italia multietnica, la sua ossessione da almeno sei anni, quando propose il voto per gli extracomunitari. Non accende la platea, anzi spegne i pur modesti entusiasmi suscitati all’inizio. L’applauso finale è così moscio che Ignazio La Russa, non so se per piaggeria o per sottolineare la scarsa performance del capo, che tale non è più, invita la platea ad applaudire con maggior convinzione, come si fa per incoraggiare un debuttante.

Si finisce verso le due. Non mi attardo. Attardarsi perché? Non c’è da votare. Da troppi anni a destra non si vota. Non si è votato a Bologna, dove si sono approvate per acclamazione liste manomesse la sera prima in qualche riunione fra maggiorenti; non si è di fatto votato a Fiuggi, dove chi dissentiva dalle liberaldemocratiche tesi congressuali è stato democraticamente messo alla porta, non si è votato nella maggior parte dei congressi provinciali. Non si è mai votato neppure nelle varie riunioni dell’assemblea nazionale, dove tutto veniva deciso dai capicorrente la sera prima e chi non era allineato veniva fatto parlare quando tutti i delegati erano andati a cena. La gente pare contenta di poter ritornare per tempo alle proprie case, alle fidanzate impazienti, alle amanti piacenti, alle mogli imbronciate, alle partite di calcio e si affretta verso l’uscita mentre la regia trasmette come a più riprese come un ballabile l’inno nazionale, che si dovrebbe ascoltare sull’attenti e in piedi.

Anch’io mi affretto a salire sulla prima navetta per Termini e solo allora, compilando queste note, mi accorgo di una singolare coincidenza. Oggi è il primo giorno di primavera e nella primavera di quarant’anni fa, sedicenne, presi la mia prima tessera dell’Associazione studentesca di azione nazionale “Giovane Italia”, giusto in tempo per assistere a Roma ai funerali del segretario del Msi Arturo Michelini.  Funerali in camicia nera, come del resto quelli di Almirante, in cui mi capitò di reggere la corona dell’ambasciata di Spagna (Michelini era stato volontario nel corpo di spedizione italiano). Oggi esco da un altro funerale, un funerale senza “presente!” né “alalà”, come è giusto, ma anche senza lacrime. Mentre faccio il biglietto dell’Eurostar per Firenze non posso fare a meno di domandarmi perché, mentre il fascismo è caduto per una sconfitta, il neofascismo si è dissolto dopo una vittoria. Ma per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un nuovo libro, che non scriverò mai: I tredici anni che distrussero la Destra.

 

Enrico Nistri

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