È imbarazzante confutare la narrazione del “partito della nazione” come chiave d’inquadramento della fase presente. Sia perché essa discende in linea retta dalla tradizione più nobile del movimento operaio, sia per l’autorevolezza di chi la propone per l’oggi. Eppure – lo dico subito, senza mezzi termini –, ritengo che essa vada liquidata al più presto come costruzione “ideologica” (nello specifico senso marxiano), ergo funzionale al mantenimento di assetti regressivi.
Come ogni ideologia, la narrazione del partito della nazione pone in primo piano elementi di realtà, dietro i quali si cela una falsificazione. I fatti che ne giustificano la riesumazione sono sostanzialmente due: uno di carattere quantitativo – il 40% al Pd –, l’altro di carattere qualitativo – la valanga di voti si deposita su un soggetto pienamente inquadrato nel solco europeo, non populista, fedele alle istituzioni democratiche, non antisistemico. È possibile, ciò ammesso, che “questo” Pd funga da fantomatico partito della nazione, ossia che, nel turbine della crisi, la “parte” democrat prenda le redini dell’interesse generale e faccia quel che c’è da fare? È a questo punto che il riconoscimento di “ciò che è” cede a un immaginario “dover essere”.
Ci convinciamo, vale a dire, che quel che c’è da fare (e che questo Pd si appresta a fare) corrisponda esattamente a quel che, da anni, noi pensiamo si debba fare. Ossia, rigettare il dogma liberale, farla finita con l’austerità di bilancio, rimettere nelle mani dello Stato la programmazione dello sviluppo, rilanciare le politiche sociali, riqualificare e rivalorizzare il lavoro, ridare forza ai corpi intermedi e ai processi partecipativi eccetera. Insomma, noi pensiamo che Renzi, con la sua energia e il suo carisma, abbia dissodato il terreno e che ora finalmente realizzerà non il suo, ma il nostro progetto di sempre. Renzi ci mette il corpo e noi ci mettiamo la testa. Inutile dire che questa è una favolosa illusione. La testa, Renzi ce l’ha già e non ne ammette altre. L’ideologia del partito della nazione, mettendo avanti i due dati di realtà sopra enunciati, “occulta” la banale realtà: Renzi sta realizzando né più né meno che un progetto di ristrutturazione neoliberista, perfettamente allineato ai dettami erogati a suo tempo dalla Trilateral Commission, fidando sul fatto che questa ristrutturazione, avviata ovunque a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, in Italia si è realizzata poco e male. È impegnato cioè nell’impiantare in loco lo stesso modello già ampiamente fallito altrove. È impegnato ad aggravare la crisi. Per giustificare questa macroscopica svista sul progetto generale, ci consoliamo additando singoli provvedimenti – gli ottanta euro, su tutti – che appartengono alla vena populista di Renzi (dimenticando, tra l’altro, che il populismo è un lubrificante fondamentale dell’assetto neoliberale, non certo il suo antidoto – al netto di ogni considerazione di merito).
Si tratta, in realtà, di una vecchia scommessa: occorre sempre favorire i processi di modernizzazione, en général e a prescindere dalla loro qualità, poiché se smuoviamo le cose arriverà immancabilmente il nostro turno, ossia la “rivoluzione socialista!”. Sono ben note, in questo senso, le pagine di Marx circa il ruolo rigeneratore giocato dalla borghesia nei confronti degli assetti feudali. Essa non è che una stazione intermedia verso il sol dell’avvenire. Questa forma di provvidenzialismo percorre tutto il pensiero del movimento operaio e giustifica da sempre l’alleanza tattica con – diciamo così – la “borghesia”. La storia dell’ultimo secolo dovrebbe averci ampiamente insegnato che purtroppo non funziona così. La borghesia ha dimostrato di avere a disposizione un infinito repertorio di variazioni sul tema della “rivoluzione passiva” e il nostro turno non arriva mai. L’effetto reale della credenza provvidenzialista è quello di rigettarci in una sorta di “spirale del silenzio”: i nostri argomenti spariscono dalla scena pubblica. Nascosti nella vergogna, vengono sempre rimandati a un futuro indefinito, nel quale – si immagina – le condizioni per la loro rappresentazione si faranno mature. Guardando più specificamente alla questione del partito, noi pensiamo che un soggetto al 40% confrontato a una crisi di tali dimensioni abbia per ciò stesso bisogno di strutturarsi sul territorio, di aderire esattamente all’immagine che noi abbiamo del partito come comunità concreta di persone che decidono dei destini generali attraverso la discussione collettiva. Niente di più opinabile: il partito di Renzi funziona benissimo così com’è. Non ha bisogno di attingere ad altri modelli. Non ha bisogno della moltiplicazione dei luoghi di elaborazione e di decisione collettiva. Tutt’al contrario: mira a evacuare quei luoghi o a renderli del tutto irrilevanti. Ha bisogno di un centro che comunichi direttamente con l’elettorato. Ma l’immagine del partito della nazione è incongrua soprattutto per un altro motivo. Nella sua formulazione originaria, la traiettoria logica che lo abita procede dalla “parte” verso il tutto. Il perseguimento dell’interesse proprio di una comunità politica finisce, in un determinato frangente storico, per coincidere con i bisogni e l’interesse della comunità nazionale tutta. Ciò che viene elaborato nella comunità partito fa da guida al paese. Ebbene, occorre prendere consapevolezza che l’assetto venutosi a configurare, soprattutto in virtù (o in vizio) dell’evento fondativo delle primarie, produce la totale inversione della dinamica immaginata: oggi è il tutto che determina la parte.
La narrazione del partito della nazione potrebbe avere un fondamento se la parte godesse effettivamente di una sua autonomia sovrana, di una libertà di elaborazione, a partire dalla quale condurre la sua lotta per l’egemonia. Non è evidentemente così in era renziana. Quel che abbiamo di fronte è una sorta di commissariamento strutturale e permanente della dimensione comunitaria interna da parte delle forze esterne (che non sono un’astrazione, bensì l’espressione degli interessi vigenti e incistati nella comunità nazionale e – sempre di più – internazionale). Ogni elaborazione sovrana interna alla comunità viene immediatamente squalificata dall’esterno. Renzi, infatti, trae la sua legittimazione al di fuori del partito (nella sfera della generica “opinione pubblica”), e gioca continuamente questa legittimazione contro le determinazioni interne, disinnescando all’origine l’autonomia della comunità partito.
Il problema vero è che alla lunga non si dà più nemmeno contrasto visibile tra interno ed esterno: la comunità partito interpreta sempre più la sua autonomia come adattamento alla “linea” decisa nella sfera – tutt’altro che neutra e spontanea – dell’opinione pubblica. È lo stesso meccanismo di perdita dell’autonomia delle singolarità che si verifica nei sistemi complessi e apparentemente aperti (su cui è disponibile ormai un’ampia letteratura). Questo spiega il repentino cambio di paradigma che l’intera comunità politica del Pd (nonché il suo gruppo parlamentare) ha operato nel passaggio da Bersani a Renzi. Come si può sperare, date queste condizioni, che la parte guidi il tutto? È esattamente il contrario: il tutto guida e determina la parte. Non siamo di fronte a un partito della nazione, ma a una nazionalizzazione del partito. L’autonomia del Politico è un lontano ricordo. (da ideecontroluce.it)
*sociologo dell’Università di Bari