Aveva novantadue anni, era il più grande giornalista italiano, ha avuto la lucidità di scrivere il “comunicato stampa” della propria morte, un giorno prima che la comare secca gli facesse visita; non gli è andata male. Qualche anno prima aveva dettato la scritta per una lapide immaginaria: “Qui giace Indro Montanelli. Era ora”. Ma non se ne fece niente, e continuò a scrivere, imperterrito.
Ed a presentare libri a Cortina, dove ho avuto la fortuna di parlargli, per pochi minuti, ogni tanto, tra i carabinieri che regolavano l’accesso degli spettatori all’Hotel Savoia (non più di quattrocento persone e gli altri fuori, a sentirne la voce dall’altoparlante sistemato a bella posta).
“Mi chiamo Indro” è un volumetto in trentaduesimo, stampato dal “Corrierone” lo stesso anno della morte, con una prefazione di Ferruccio De Bortoli per nulla sdolcinata, come sarebbe piaciuta a lui; quel libretto di quarantotto pagine viaggia, da tredici anni, nella tasca interna della mia borsa: superstizione, la mia, giustificata dall’età che avanza e dalla stima che non decresce.
Non credeva in Dio, ma nel rispetto della parola data, nell’onore e nella dignità personale, sì; e l’Italia è stato il suo grande amore, non sempre adeguatamente ricambiato.
Di un suo antenato ha scritto che era solito dire (ma sono certo che l’episodio sia stato stato inventato di sana pianta dallo stesso Montanelli) che non aveva fatto installare, in casa, il bidè “perché il culo andava trattato da culo”; le smanie autocelebrative non lo appassionavano, e gli piaceva apparire rustico, come il suo temperamento.
Al processo contro i brigatisti rossi che, anni prima, lo avevano gambizzato, frantumandogli il femore a revolverate, non si costituì parte civile, diede loro la mano e li ringraziò per non averlo trattato “peggio”. Non tutti lo sopportavano, in politica e nella stampa; ma lui se ne faceva una ragione.
Perché lui era Montanelli, e gli altri soltanto “gli altri”.