L’intervista. Franco Cangini: “La destra? E’ una tendenza sociale. Si unirà in nuove forme”

842304 ALZABANDIERA IN PIAZZA DUOMO PER I 150 ANNI DELL' UNITA' D' ITALIAChi si ricorda quelle tribune politiche di fine anni ’70 primi anni ’80, quelle in cui si fumava e si facevano ai politici domande per l’appunto politiche (e non sulle fidanzate), non può non rammentare Franco Cangini. Volto spigoloso, eloquio brillante, accento di quella Toscana profonda da cui proviene, Volterra (Pisa), Cangini era presente spesso. Direttore ed editorialista di lungo corso (Resto del Carlino, Tempo, Giornale), era allora, come lo è oggi, un osservatore attento della vita politica del Paese, di cui , lo scorso anno, ha raccontato “La crisi italiana: 1943-2013” (Newton). Il 2014, in un ideale prosieguo, è destinato a essere un capitolo movimentato.

Domanda. Direttore, l’incontro del Nazareno, fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, secondo alcuni è stato il vero passaggio alla seconda repubblica, perché, si sostiene, non è stata mai chiusa la prima. Che ne pensa?

Risposta. È solo un inizio, bisogna vedere come le cose si sviluppano. Certo, è la prima volta che c’è un dialogo concreto fra i due pezzi dello schieramento. Renzi ha dimostrato personalità ma ora deve provare di avere il controllo del partito e soprattutto dei suoi gruppi parlamentari.

D. Nel settembre scorso, in un’intervista a Maurizio Cabona per Barbadillo.it, lei disse di Renzi che era “più facile fargli gli auguri che scommettere su di lui”. Oggi ci si potrebbe puntare?

R. Ha fatto molti passi in avanti ma la sua grande forza è di essere l’unica speranza riconosciuta, per il Pd, di affermarsi alle prossime elezioni. La sua spinta è la necessità di vincere, superando l’handicap storico della sinistra, sempre minoritaria in questo Paese.

D. C’è chi sostiene che quest’accordo poteva essere speso meglio, per esempio varando il semiprensidenzialismo…

R. Ma, vede, l’assurdità di fondo, in questo caso, è che Renzi, come leader di partito eletto, dovrebbe stare alla presidenza del Consiglio. Così le cose sono più difficili. Certo, il semipresidenzialismo sarebbe la soluzione, quella di cui si discute ne è solo una premessa. La legge elettorale, onestamente, serve a poco, se non a sanare il disastro innestato dalla Corte costituzione che ci ha ripiombati nel proporzionale puro, superato e fonte di disastri. Ma Renzi non ha la forza di fare il grande salto verso il presidenzialismo. Non basta avere ragione.

D. E cioè?

R. Prendiamo la quinta repubblica in Francia.

D. Vale a dire Charles De Gaulle…

R. Giusto. Malgrado la sua genialità, fu sbeffeggiato dalla classe politica, esiliato o costretto all’autoesilio in campagna e  preso per i fondelli. Fino a quando? Fino a che la crisi algerina si mise al brutto e allora i parigini si ritrovarono con un reggimento di parà a spasso per la capitale. Idem, qualche secolo prima, ai tempi di Luigi XVI e la corte faceva magnifici e inconcludenti progetti per uscire dalla crisi, mentre le novità, la rivoluzione premevano alle porte. E Maria Antonietta, che non era una cretina, sbottava: “Où est la force?”. Ossia: “Dov’è la forza?”. Senza forza non si fa niente.

D. La nostra Algeria sono stati gli spread? Ora che paiono essere crollati, ci si chiede se, a fine 2011, il loro “decollo” non nascondesse anche una manovra sull’Italia. Da allora non abbiamo fatto gran ché e sono crollati.

R. E’ vero. Sono serviti certamente a far fuori Silvio Berlusconi e sono stati una legittimazione anche per il governo di Enrico Letta.

D. A proposito di Letta, come vede questo esecutivo che, ora, si trova una maggioranza sulle riforme diversa da quella delle larghe intese sui cui si fonda?

R. E’ una foglia al vento. Letta ha interesse a fare andare avanti la riforma, perché almeno gli dà il beneficio del tempo.

D. E dopo? Sarà scontro con Renzi? C’è chi vede nella possibilità di farlo diventare commissario europeo, in autunno, una possibile exit strategy.

R. Sarebbe la via uscita classica. Non credo, infatti, allo scontro fra i due, sarebbe un disastro per il Pd, per il motivo di cui sopra e cioè della necessità di vincere.

D. Prima lei diceva che il neosegretario del Pd deve dar prova di saper controllare il partito. Si comincia a guardare alla sua gestione come quella del Psi post-Midas, quando Bettino Craxi se ne appropriò…

R. L’analogia certamente c’è, però vorrei ricordare che Craxi impiegò cinque anni, i più fecondi, impegnativi, logoranti, per impradonirsi del Psi. Cinque anni fondamentali. E nel 1979, fu persino sul punto d’essere rovesciato in un comitato centrale del Psi, in cui lombardiani e demartiniani avevano i voti per cacciarlo: fuGianni De Michelis a offrirgli la sponda. Però poi naufragò…

D. Per Tangentopoli?

R. Per non aver realizzato la riforma costituzionale presidenziale. Lo fece per scetticismo: alla fine era attaccato alla prima repubblica e al sistema di cui aveva dimostrato di sapere usare bene la macchina e a proprio vantaggio. Alla fine, Craxi non aveva il desiderio di questo gran cambiamento, ne temeva le complicazioni.

D. Però fu il primo socialista a Palazzo Chigi, anche se Pietro Nenni c’era stato da vicepresidente col centrosinistra del 1962.

R. Sì raccontò la delusione di Nenni nell’entrare nella stanza dei bottoni: li schiacciava e non succedeva niente.

D. Un po’ come avrebbe detto Berlusconi più di trent’anni dopo…

R. Sì, anche se il Cavaliere se ne accorse già nel 1994, dopo pochi mesi esperienza, tanto da rimanerne scioccato.

D. Voleva fare la rivoluzione liberale…

R. Sì ma da quella disillusione non si riprese più. Anche nei governi successivi si limitò a sistemare un po’ di cose, a tirare a campare, come un Giulio Andreotti qualsiasi.

D. Un attore politico importante oggi è Beppe Grillo. Si dice contrario a questa riforma elettorale ma, alla fine, potrebbe non andargli troppo male: il M5s si prenderebbe i suoi seggi e potrebbe tentare il colpo grosso…

R. A loro converebbe rimaneere a quel che resta del Porcellum, ma non li prendo molto sul serio: sono il classico bastone di Arlecchino, di cui si servono gli elettori per dare segnali di insoddisfazione. La vescica grillina potrebbe sgonfiersi.

D. E come?

R.  Basta che la speranza si riaffacci, si incarni, arrivi a farsi prendere sul serio. Una nuova idea di cambiamento. Renzi appunto.

D. A destra che succederà: si riaggregheranno tutti, se passa la riforma?

R. Non mi preoccuperei: il problema della destra in Italia non esiste in quanto legato alla forma partito. Come disse un politologo americano a proposito del partito democratico del suo Paese: “E’ come i funghi: lo puoi prendere a calci ma si riforma”. Anche da noi c’è una tendenza sociale, che esiste certamente anche in Europa, di un pubblico che rifiuta soluzioni di sinistra. Per cui, B. passa ma questo sentimento “non di sinistra” continua e si incarna in forme nuove.

D. A questo popolo moderato, Renzi è piaciuto molto, al tempo delle sue primarie contro Pier Luigi Bersani. Molti però hanno temuto che l’assunzione del ruolo di segretario Pd comportasse un riposizionamento a sinistra.

R. Ed effettivamente Renzi ha dato motivi di preoccupazione…

D. Sì, ma con la gestione di questo mese, con l’incontro al Nazareno con B., non le pare abbia rassicurato questi potenziali elettori?

R. Non v’è dubbio. Renzi ha mandato messaggi assai forti a destra. Piace. Semmai, adesso, rischia di doversi lamentare delle conseguenze all’interno del suo stesso partito appunto.

D. Sì, le manovre sono cominciate. C’è chi s’è fatto paladino della preferenza, dopo averla avversata da sempre.

R. Grottesco. Una manovra solo per togliere a Renzi i gruppi parlamenti. Vediamo come il segretario saprà gestire la cosa.

(da Italia Oggi)

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Goffredo Pistelli

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