Bollito. Cinquantenne in crisi d’identità, i più teneri. Alle prese con un delirio senile, i più sprezzanti. Estremista. Reazionario. Propagandista. Tutto si può dire di Frank Miller, fumettista, sceneggiatore e regista statunitense, meno che non sia stato di parola: «Holy Terror – aveva detto a settembre, in occasione dell’uscita negli States della sua nuova graphic novel – offenderà tutti». Pensata inizialmente come scontro tra Batman e al Qaeda, ha riaperto il conflitto tra l’artista americano e la critica d’oltreoceano, che quando non si è limitata a una scrollata di spalle l’ha liquidato come razzista e violento. Wired lo ha persino accusato di giocare con un dramma nazionale come l’11 settembre. Come se non si trattasse del geniale autore di Ronin, samurai fantascientifico, de Il ritorno del cavaliere oscuro, con cui ha restituito spessore e carisma all’uomo pipistrello, di 300, romanzo grafico ispirato alla battaglia delle Termopili e della mitica serie Sin City, portata sul grande schermo da Robert Rodriguez.
La colpa di Miller sarebbe quella di aver dichiarato guerra al fondamentalismo islamico, spazzandolo via dal suolo americano per il tramite del protagonista Fixer, una specie di Batman al cubo. Lo ha fatto a modo suo, ovviamente, mescolando col suo stile visionario superomismo e crime story, avventura classica ed epica postmoderna, pulp e individualismo anarchico. Motivo sufficiente per essere iscritto d’ufficio dai critici veterocomunisti nel registro degli autori non allineati al verbo progressista, dietro Sam Peckimpah, John Milius, Clint Eastwood e via dicendo. Gli indizi sarebbero univoci, concordanti e convergenti e, in quanto tali, costituirebbero una prova a carico dell’imputato che non si è cosparso il capo di cenere e poche settimane dopo l’uscita del libro ha rincarato la dose: «L’America è in guerra contro un nemico spietato – ha ribadito – e forse avrete sentito, tra un momento di autocommiserazione e di narcisismo che vi godete nei vostri mondi comodi e sicuri, termini come al Qaeda e terrorismo». Non solo: nel mirino di Miller anche i manifestanti di Occupy Wall Street, definiti «buzzurri, ladri e stupratori».
Da noi l’opera sarà disponibile dal prossimo marzo – la pubblicazione italiana è stata recentemente annunciata da Bao Publishing e avrà il titolo di Sacro terrore – ma il fuoco di fila è già iniziato. Fuori dal coro, Michele Medda, papà di Nathan Never e autore della miniserie Caravan. L’autore sardo ha rispedito le critiche al mittente: «Quelle più aspre – ha commentato – non potevano che venire dal fighettismo politicamente corretto». Se per certi versi il lavoro di Miller può apparire superato dalla morte di Bin Laden – questo il ragionamento di Medda – ancor più superate sono le considerazioni sull’inconsistenza della minaccia integralista, tanto più alla luce degli inquietanti sviluppi della cosiddetta “primavera araba”. «Holy Terror è un’invettiva contro l’ignavia di un Occidente anestetizzato dal politicamente corretto – scrive Medda – ma accusarlo di razzismo è fuori luogo e ipocrita. Non c’è discorso sulle razze né si auspicano scontri di civiltà, la parola Islam non compare mai nella storia e i criminali sono terroristi che, anche se non è elegante ammetterlo, sono islamici».
Quel che di Miller appare davvero intollerabile è il patriottismo, «che in lui non è un concetto datato e idealistico – spiega Medda – ma autoconservazione». Non una reliquia nostalgica ma un meccanismo di conservazione per una nazione. Del resto, quando già nel 2006 Miller annunciò questo volume – non a caso dedicato alla memoria di Theo Van Gogh, regista e pubblicista olandese ucciso nel 2004 da uno studente islamico membro di un gruppo integralista – lo descrisse come uno strumento di propaganda. «Un appellativo che non mi piace – ha poi precisato – perché generalmente viene usato negativamente solo quando il lettore non è d’accordo con l’autore e con il messaggio della sua opera». Miller rivendica il diritto di avere un suo punto di vista e – nel solco inaugurato oltre settanta anni fa dal primo patriota d’inchiostro, Capitan America – di schierare i suoi supereroi contro i malvagi di turno.
Lo ha fatto tutto da solo, stavolta, lasciando a Dave Stewart solo i colori della copertina e tornandosi ad armare di matite e chine. Per il resto, Holy Terror è quanto di più milleriano si potesse immaginare: Sin City è richiamato sin dal logo, il formato è quello orizzontale e cinematografico già sperimentato efficacemente con 300, forte di una potenzialità visiva e narrativa sicuramente più efficace del tradizionale comics book, e l’uso estremo del bianco e nero esprime fedelmente le emozioni più autentiche dell’uomo, senza sfumature e con poche concessioni a estemporanei dettagli colorati, tecnica quest’ultima usata dall’autore anche nel recente esordio alla regia cinematografica con The Spirit. «Questo volume mi assomiglia – ha spiegato – e per questo volevo essere presente in ogni suo aspetto».
La trama è essenziale: una serie di attentati suicidi scuotono Empire City, che alto non è che la Gotham City di Batman, ovvero una moderna metropoli. Polizia ed esercito assistono impotenti all’escalation di terrore fino a quando il supereroe The Fixer, “il riparatore”, non esattamente un cultore dell’islamismo, decide di essere della partita. Ad aiutarlo Natalie Stack e il capitano di polizia Dan Donegal, rispettivamente surrogati di Catwoman e di un giovane commissario Gordon (la mission inizialmente avrebbe dovuto essere affidata a Batman e al suo entourage) cui il protagonista non lascia grande spazio.
«Una trama superficiale e mal raccontata – la giudica così Alessandro Bilotta, creatore della premiata serie di Valter Buio e sceneggiatore di Dylan Dog – in cui i disegni mascherano con lo stile la mancanza di cura». Nulla a che vedere, secondo lo sceneggiatore romano, con le felici sperimentazioni sul personaggio di Daredevil, influenzate dai racconti noir di Chandler ed Ellroy. «La cosa più interessante riguardo Holy Terror – sostiene Bilotta – è la retorica moralista che ha scatenato. La stessa morale contro cui l’autore si schiera in maniera discutibile e violenta, insorge etichettando il fumetto come razzista, giudicando la qualità delle storie dai contenuti morali che queste veicola. Le storie, invece, rappresentano lo sguardo e l’opinione del loro autore sulla realtà e Holy Terror è un fumetto antiretorico, ovvero esprime un sentimento sincero di rabbia e violenza che non ci dice nulla sul mondo, ma tutto su colui che sta realizzando quel fumetto. C’è da rabbrividire all’idea che la qualità delle storie sia direttamente proporzionale a quella dei contenuti morali che racchiude, una legge su cui Hollywood ha edificato la propria retorica. Storie che non devono emozionarci davvero – conclude Bilotta – ma farci sentire bene perché ne condividiamo i buoni sentimenti. C’è da rabbrividire al pensiero di tutti quei moralisti che si schierano contro la violenza in senso astratto, nello stesso istante in cui sono chiusi nei loro uffici e sgomitano contro un collega». Comunque la si pensi, Miller ha probabilmente raggiunto il suo scopo: assestare un pugno nello stomaco al buonismo. Provocare. Dissacrare, anche il proprio lavoro. L’auspicio che aveva espresso oltre vent’anni fa è stato coronato. «Se mi aspetta una carriera nel fumetto – diceva – spero che sia come quella di Bob Dylan».