Riforme. Quando Accame indicava la svolta verso presidenzialismo e Nuova Repubblica

Accame(Il dibattito politico e parlamentare si sta arrovellando intorno ad una legge elettorale che obbliga il sistema italiano ad indossare la camicia di forza del bipolarismo di stampo anglosassone in nome del dogma della governabilità (con quali risultati in questo ventennio?). Giano Accame, intellettuale la cui lungimiranza e brillantezza di analisi manca ad un’intera area culturale, indicava invece nella riforma costituzionale presidenzialista la battaglia prioritaria per disegnare una Nuova Italia, al fine di fornire all’esecutivo gli strumenti per affermare giustizia sociale e sviluppo armonioso delle comunità. Quella rotta indicata da Accame, resta valida, come è possibile riscontrarlo dalla rilettura dell’articolo che segue dello studioso nato a Stoccarda. mdf)

L’attivarsi del dibattito sul presidenzialismo è di buon auspicio per il 2009, un anno che potrebbe finalmente portare positive riforme nella seconda parte meccanica della Costituzione. Vi sono infatti obiettivi tra i più avanzati e apprezzabili nella prima parte programmatica della Costituzione la cui applicazione è rimasta carente anche perché i meccanismi istituzionali approvati a suo tempo dai costituenti ci hanno dato dei poteri democratici troppo deboli.

Dopo vent’anni di un unico governo forte, la diffidenza verso il potere esecutivo era comprensibile. Eppure condusse all’errore di creare un modello partitocratico esposto a continue crisi di governo, che per certi aspetti sviliva – come lamentava un grande democratico, Randolfo Pacciardi – la democrazia. Perché, insisteva Pacciardi, la vera democrazia deve essere intesa come potere di popolo, non come impotenza istituzionalizzata. I soli a comprenderlo, già ai tempi della Costituente, furono i nove residui rappresentanti del Partito d’Azione – unico partito sorto proprio in funzione antifascista – i quali invano proposero la repubblica presidenziale, ricordando che il sistema liberaldemocratico prefascista era caduto non perché fosse troppo forte, ma perché troppo debole. Fu l’azionista Piero Calamandrei in nome di una sinistra modernamente riformista a indicare su L’Italia libera del 29 settembre 1946 <valore e attualità della repubblica presidenziale>; e Mario Paggi a denunziare <il delitto di una Costituzione vecchia prima di nascere>, riferendosi appunto a quella seconda parte organizzativa che avrebbe poi dato vita a una partitocrazia ricca di poltrone di sottogoverno, ma con una mediocre capacità di governo.

Il progetto presidenzialista fu rilanciato nel 1964 con l’Unione Democratica per la Nuova Repubblica da Randolfo Pacciardi, già capo del Battaglione Garibaldi formato da esuli antifascisti alla guerra di Spagna, poi leader del Partito Repubblicano, vice presidente del Consiglio nei governi della ricostruzione guidati da Alcide De Gasperi e ricostruttore, come ministro della Difesa, delle Forze Armate. Lo ricordo ora per un doppio motivo: per liberare il presidenzialismo da una troppo pesante ipoteca di destra e restituirgli i suoi caratteri trasversali e le origini antifasciste, in modo da facilitare l’incontro e il dialogo tra l’attuale maggioranza e le punte più intelligenti dell’opposizione. Ma anche per rammentare, come unico sopravvissuto tra i firmatari dell’Appello lanciato nel febbraio 1965 per la Nuova Repubblica, una ormai lontana realtà di superamento, nel reciproco rispetto, delle lacerazioni prodotte nella prima metà del Novecento dal conflitto tra fascismo e antifascismo.  Mi portò da Pacciardi subito dopo un suo discorso all’Adriano di rottura con il sistema Fabio De Felice, che era stato deputato missino e membro della direzione nazionale giovanile nei difficili anni postbellici. Pacciardi sosteneva la necessità di non addossare alla generazione del Duemila temi e rancori di una storia passata. Ci intendemmo sin dal primo incontro, divenni direttore del suo settimanale Nuova Repubblica e fui invitato, a quei tempi vistosamente più giovane oltre che di destra, a firmare l’Appello presidenzialista insieme a Pacciardi, al generale Raffaele Cadorna (già comandante militare della Resistenza e senatore indipendente con la Dc), a Giuseppe Caronia (rettore dell’Università di Roma alla liberazione e senatore democristiano legato a don Sturzo), a Mario Vinciguerra (scrittore liberal-azionista, dieci anni tra prigione e confino politico per antifascismo, presidente della Società italiana autori e editori), a Ivan Matteo Lombardo (segretario del Partito socialista nel dopoguerra, poi passato alla socialdemocrazia, più volte ministro), Tommaso Smith (già direttore del quotidiano paracomunistaPaese e senatore indipendente nelle liste del Pci con cui ruppe dopo i fatti d’Ungheria), Alfredo Morea (deputato repubblicano del primo dopoguerra, segretario del gruppo parlamentare dell’Aventino, confinato politico antifascista). In quella compagnia, essendo redattore del Borghese e già membro del comitato centrale del Msi, rappresentavo la destra, ma la protesta contro la degenerazione del sistema che avrebbe portato trenta anni dopo al collasso di Tangentopoli era espressa con gran prevalenza da posizioni antifasciste. Posizioni che oggi mi sento di rappresentare per l’affetto e le accuse che ci hanno legato.

Il presidenzialismo, che all’epoca della costituente per la destra venne sostenuto su Rivolta Ideale da Carlo Costamagna ed era sempre rimasto tra i temi di fondo, fu rilanciato da Giorgio Almirante nel congresso tenuto a Napoli nell’ottobre 1979 e la stessa espressione pacciardiana di Nuova Repubblica divenne patrimonio propagandistico del Msi nei primi anni Ottanta. Una coerenza che è giusto rivendicare da destra, ma che è opportuno anche riconoscere, insieme al merito d’aver superato contrapposizioni legate alle lotte di tempi lontani,  a coraggiosi anticipatori di tutt’altra parte. Così come a Casini e ai cattolici sparsi a sinistra converrà ricordare il precedente intellettualmente molto qualificato dei presidenzialisti democristiani di Europa Settanta, che con Zamberletti, Ciccardini, De Stefanis e altri proposero un approccio al presidenziaslimo dal basso, iniziando, come è poi avvenuto con buoni risultati, dall’elezione diretta del sindaco e dal presidente delle Regioni. Sarà il 2009, anche ricuperando le eredità trasversali, l’anno del Sindaco d’Italia?

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Giano Accame

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