Una realtà in cui conta l’accumulo ad ogni costo, sia ai piani alti, dove si muove il glaciale squalo dell’alta finanza Giovanni Bernaschi, interpretato da Fabrizio Gifuni – tutto completi sartoriali di chachemire, partite di tennis e riunioni aziendali a Londra e Milano – sia nel limbo dei piccoli arraffoni di provincia, dove si sbraccia l’immobiliarista Dino Ossola – un mai tanto cerimonioso e cencioso Fabrizio Bentivoglio, che riesce bene nella maschera viscida, avida e pavida del parvenu – che punta tutto quello che non ha pur di beccare le briciole di quell’Olimpo di ville con parco privato e fondi fiduciari con interessi al 40% che ha sempre guardato da lontano, e dal basso. Completano il quadro i rispettivi figli, un immaturo capellone e una ribelle dall’occhio bistrato, legati da un adolescenziale amorazzo ormai agli sgoccioli, e le rispettive consorti: Carla, una Valeria Bruni Tedeschi (la prova migliore del film) imbrigliata nella vacua e passiva moglie trofeo, ex attrice completamente intontita dal lusso, dall’anaffettività del marito e dalla totale mancanza di contatto con la realtà; e Roberta, una Valeria Golino goffa e materna nel rapporto col marito e con la figlia adottiva, nella dedizione missionaria con cui porta avanti la professione di psicologa dell’ASL e nell’effettiva e tardiva gravidanza di due gemelli. Un solidissimo cast di interpreti ben diretti, che danno corpo ai tipi umani di una società di consumi e intrallazzi in pieno deterioramento, divisi tra premiazioni scolastiche di rampolli con attacchi di panico, colloqui per prestiti in banca e appuntamenti dall’estetista. Una società fatta di opulenza e ipocrisie, di segretarie in tacco dodici e facoltose amiche di famiglia ossessionate dalle sculture indiane e dai tappeti siriani, dove a uscirne malconcio non è solo il mondo dell’imprenditoria lombarda ma anche quello del panorama umano e artistico italiano in genere, con teatri vuoti che cadono a pezzi e vegliardi registi imbalsamati, stagionate giornaliste finto-femministe e finto-nichiliste dalla penna rossa e dagli inconsistenti contenuti, fino all’eterno adolescente e barbuto professore di storia del teatro (un perfetto Luigi Lo Cascio) che escogita la proiezione del dvd di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene come pretesto e sottofondo ad un amplesso – un tantino squallido e scalcagnato – con la formosa e altolocata signora Bernaschi. Il materiale c’era, e c’è, ma rimane la sensazione che Virzì non abbia saputo venirne del tutto a capo: il film critica, e su questo siamo d’accordo, ma cosa? La società, la cultura e la morale italiane in declino (il film è ambientato nei mesi immediatamente precedenti al tracollo dei mercati italiani, e si conclude con il brindisi, nel giardino della villa dei Bernaschi, al fallimento del Paese, sul quale il finanziere aveva speculato e rilanciato per non finire schiacciato da un errore di previsione) fanno da sfondo alla totale incapacità di costruire relazioni umane vere, tra coniugi, amici, genitori e figli. I personaggi si muovono talvolta come macchiette, come schiavi della propria maschera, salvo poi dare in escandescenze in improvvisi e morbosi, quasi schizofrenici, scatti d’ira. Questo elemento, forse il più interessante, è, però, in parte vanificato nell’ultimo capitolo (il film è scandito da quattro capitoli: Dino, Carla, Serena e, appunto, Il capitale umano) in cui il cerchio finalmente si chiude intorno al colpevole o, meglio, i colpevoli: sembra che si cerchino, allora, un po’ la lacrima e l’arbitrio facili. Il mondo dei figli, degli adolescenti che appaiono vittime predestinate di una generazione di genitori che ha masticato e ingoiato intera l’Italia, sembra quello costruito con meno ispirazione, quasi a voler a tutti costi creare uno spartiacque tra padri e figli, corruzione e innocenza, buoni e cattivi sentimenti e, anche, tra ricchi e poveri. Infastidisce come si sia calcata la mano sul personaggio del giovane e bristrattato amico/innamorato segreto della figlia di Dino, troppo buono, troppo sfigato, troppo vittima: spiantato, orfano, condannato ingiustamente per spaccio, sfruttato dal bieco e violento zio, sfottuto dai compagni di scuola, pure in cura dalla psicologa per autolesionismo, e con un animo romantico, fragile e artistico. Sembrano un po’ troppi i clichè nel trattare l’amore tra i teenagers, la favola della bella, ricca e inquieta e del povero e dannato in un paese di lupi. Peccato, perché, lotta generazionale e di classe a parte, il film funziona: la regia è sicura, il montaggio (qualche errore e forse troppe dissolvenze) valido e la fotografia fredda e azzeccata.