“Questa non è una pipa” e la destra di governo che meriterebbe un bel processo…

A un certo punto, grazie a una scellerata decisione del direttore di Rai5, un piccolo (ma non tanto) mondo si è accorto che il mezzo televisivo è importante. Che la comunicazione, parafrasando Lui, è l’arma più potente. La volgare chiusura, a firma appunto di Massimo Ferrario, di Questa non è una pipa, il programma di Pietrangelo Buttafuoco, a quanto pare ha scosso le coscienze di tutto il variegato arcipelago di quella che, per comodità of course, chiamiamo destra italiana. In queste ore abbiamo letto commenti indignati, strali contro la censura. Addirittura prese di posizione politiche, dai piccoli ai grandi luogotenenti, in nome del diritto di un intellettuale come Buttafuoco di avere uno spazio ben più grande di quello di una piccola rete “sperimentale” come è, appunto, Rai5.

A un certo punto, insomma, un po’ tutti si sono accorti che quella scatola (sempre più piatta), di plastica non è solo un contenitore che porta i comizi di piazza fino alle tavole degli italiani. Ma, udite udite, può rappresentare anche un laboratorio dove è possibile fare innovazione, proposta culturale, informazione. Che dire, meglio tardi che mai. Il problema allora, lasciatemelo dire, non è solo la chiusura di un programma intelligente ed interessante come il nostro scrittore e giornalista ha dimostrato di sapere fare. E il problema, poi, non si può ridurre tutto nemmeno al fatto che Buttafuoco debba o non debba avere un programma in televisione, grande o piccola che sia.

La questione vera, invece, sta nella risoluzione di una serie di domande: è possibile che l’unico spazio “conquistato” da questo arcipelago all’interno del servizio pubblico sia questo? È possibile che, ancora una volta, si agisca solo dopo un torto subito, e non in funzione di fondare e stabilire qualcosa? Dov’è stata la “destra di governo” in questi diciotto anni? Quale programmazione, quale investimento, quale gesto eclatante, sfacciato potremmo dire, per innestare nuove energie in un Paese alla ricerca di nuove suggestioni? E, d’altra parte, dove è stata – facciamo qui negli ultimi dieci anni – la stessa classe intellettuale che ha partorito questo mondo? Quale sfida – editoriale, culturale, popolare – è stata lanciata, prima di tutto ai e contro propri referenti politici, alcuni dei quali rei di mettere le mani nella fondina al sol immaginare la parola cultura? E infine, dove è stato tutto il popolo (lasciamo stare qui il termine comunità) che proprio in queste ore si scaglia a difesa del programma ingiustamente cestinato?

È chiaro, le “eccellenze”, come quella del giornalista e scrittore siciliano, troveranno sempre la strada maestra, saranno riconosciute come tali nonostante provengano da una cultura marginalizzata e autoghettizzata per tanti anni. Ma, almeno fino a questo momento, queste eccellenze hanno dovuto e potuto vivere nel mondo dell’informazione esclusivamente per proprie capacità; e molte volte grazie al direttore illuminato di turno – i Ferrara, i Freccero – che è riuscito nella difficile operazione di separare il grano dal loglio, e che per questo ha deciso, contro la laica inquisizione, di aprire spazi di libertà all’interno del mainstream dell’informazione.

Il deficit di questo arcipelago allora, che per comodità chiamiamo destra, ancora una volta, sta nella capacità di ragionare in termini di “spazio vitale” da conquistare: soprattutto per chi verrà dopo. Perché è vero che ci saranno sempre i fuoriclasse che, jungherianamente, avranno la capacità di percorrere il sentiero da soli. Ma è altrettanto vero che – in una realtà nella quale occorre agire con delle responsabilità che non possono risolversi tutte nella via individuale – senza progetto, senza una scuola, senza maestri, non è possibile andare molto lontano.

Proprio l’implosione del centrodestra nato dall’ansia del ’94 allora può e deve rappresentare una grande occasione. Da una parte per chi, per questioni generazionali, ha il diritto-dovere adesso di pretendere la propria occasione, vuoi anche che sia foriera di sicura sconfitta. Dall’altra parte, quella dei grandi, di recuperare – se ne sono capaci – il terreno perduto. Di cercare di creare occasioni. O, anche, di farsi da parte. Ma esistono queste nuove energie? Certo, e di sicuro non stanno nelle segreterie di partito, né tra i neoconversi di comodo, ma lì dove scorre la vita: tra le maglie di una generazione non conforme che ha dimostrato di non sentirsi né esclusa né marginalizzata. Casomai si sente bloccata, impaurita, scoraggiata proprio da chi dovrebbe creare determinate condizioni.

La vicenda dell’odiosa ingiustizia capitata a Buttafuoco, insomma, dovrebbe insegnare a tutto un mondo che continuare ad avere un’attitudine di retroguardia rispetto al mondo della comunicazione, dell’informazione, dell’arte è  una posizione assolutamente antistorica e, permettetemi di dirlo, molto ma molto comoda. È giunto il momento, adesso, di strappare le pagine del breviario della logica degli sconfitti. Non fosse altro perché lo scenario del “commissariamento” politico attuato contro l’Italia non si esaurirà di certo con le prossime elezioni politiche. Siete, siamo pronti a credere che sia possibile adesso affermare noi stessi? Siete, siamo pronti a diventare un gruppo di pressione? A portare sulla via materiale e immateriale della nostra terra le questioni reali che riguardano non la ricerca di lottizzazione, ma la creazione di opportunità, la ricerca di nuove angolazioni con cui raccontare il Paese? Siamo pronti? Perché dobbiamo esserlo.

Antonio Rapisarda

Antonio Rapisarda su Barbadillo.it

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