Giappone. Le riforme economiche di Abe: svaluta lo Yen per l’export e sostiene la famiglia

Abe

Non c’è solo il revanscismo in politica estera, nell’agenda di Shinzo Abe. Il premier giapponese, deciso a risollevare il proprio paese dalla relativa irrilevanza politica degli ultimi decenni, è ben cosciente che tale obiettivo non si potrà raggiungere senza una contestuale uscita dalla stagnazione economica degli ultimi vent’anni. Ecco allora, che arriva l’Abenomics, un programma di riforme che sta destando notevole interesse da parte degli addetti ai lavori.

Da un lato, il premier introduce misure di tipo keynesiano, quali una politica monetaria espansiva con l’acquisto di titoli del debito nazionale da parte della Banca Centrale, che hanno portato a raddoppiare la base valutaria nell’ultimo biennio. Questo con l’obiettivo di portare fuori il paese dalla situazione di deflazione (inflazione di segno negativo) e di incentivare la crescita dell’inflazione, mantenendone il tasso al 2%. Altra misura è stata la svalutazione del 30% del valore dello yen in modo tale da incentivare le esportazioni, in un’ottica di concorrenza soprattutto con il gigante cinese. Vi è poi un aumento della spesa pubblica all’ 1,5%.

A questo, però, si aggiungono misure in senso liberista. Abe ha infatti ridotto la pressione fiscale su famiglie ed imprese ed ha introdotto forme di fiscalità di vantaggio nelle aree economicamente depresse. Fra queste l’area della Fukushima post-nucleare. A proposito, fra le proteste di molti, il Giappone ha ricominciato a mettere in funzione le centrali nucleari, la cui chiusura era stata un danno per la crescita economica. Questa politica fiscale è solo in parte compensata dall’aumento dell’Iva dal 5 all’ 8%.

A questo si aggiunge un piano di deregulation in settori decisivi quali l’agricoltura e la pesca. Se, infatti, il governo pressoché ininterrotto del Partito Liberaldemocratico è per molti versi analogo a quello della fu Democrazia Cristiana in Italia (al punto che qualche osservatore italiano ha parlato di “Balena Gialla”), il sistema economico è pure molto simile a quello italiano della Prima Repubblica, in cui interessi della burocrazia e quelli di banche e corporations iper-garantite da uno dei sistemi più protezionisti al mondo sono fortemente intrecciati. Ma Abe, che ha dichiarato che “la deregulation è il cuore della crescita” e che “la nostra ambizione non è di giocare al pari degli altri, ma di essere al top, di creare l’ambiente migliore per gli affari delle imprese” non sembra curarsi delle perplessità: non solo liberalizzazione di pesca ed agricoltura, ma anche della vendita dell’energia elettrica, triplicazione dei partenariati fra pubblico e privato, incentivi agli investimenti stranieri, stipulazione di trattati di libero scambio. “La vitalità del settore privato è il motore dell’ Abenomics” ha proclamato il premier.

E proprio sulla deregulation sembra doversi giocare la partita decisiva. Se gli economisti keynesiani e krugmaniani plaudono incondizionatamente alla svolta, parlando addirittura di una sua importazione in Europa, i liberisti avvertono che le misure “dirigistiche” che stanno avendo effetti positivi immediati, potranno avere una loro logica solo se nel lungo periodo si sarà capaci di “deregolamentare” il più possibile e di contenere e ridurre la spesa pubblica. Altrimenti qualcuno ammonisce che l’Abenomics rischierebbe di trasformarsi in… Abegeddon, una sorta di Armageddon dell’economia.

Ma proprio la crescente opposizione che sorge dalla pancia di uno dei sistemi fino ad oggi fra i più corporativi al mondo sta ostacolando proprio gli aspetti maggiormente “liberisti” dell’Abenomics. Il sistema agricolo, in cui la metà dei redditi medi proviene da sussidi statali, è sempre più ostile e sempre più consensi sta ottenendo il movimento di opposizione Japanese Agriculture, contrario all’abbattimento delle barriere alle importazioni. L’influenza del movimento sta fortemente rallentando la conclusione della Tpp, la partnership transoceanica in fase di negoziazione fra gli Usa ed altri 11 paesi. Per ora l’adesione giapponese si è limitata ad accordi bilaterali con Messico, Svizzera e Perù. Se il governo ritiene che questi accordi, stimolando la competitività e la produttività delle aziende, contribuiranno alla crescita dell’economia, il mondo produttivo giapponese sembra invece impaurito all’idea di gettarsi in un mercato davvero concorrenziale.

Forti resistenze cominciano a manifestarsi anche all’interno della Banca Centrale, in cui non tutti gradiscono la politica monetaria e tantomeno il forte controllo che il governo Abe ha instaurato sulla Bank of Japan. E dai paesi del G20, irritati per la politica di svalutazione dello Yen , arriva un chiacchiericcio che parla di imminente guerra valutaria ai danni del Giappone. Un chiacchiericcio che al vertice di Mosca sembra però essere stato messo a tacere. Per ora sembra che la linea di Usa e Ue sia di fare finta di niente.

Intanto, ai margini del G20 si è svolto un vertice bilaterale Abe – Putin. L’obiettivo è di firmare finalmente un trattato di pace che ponga fine alla guerra fra Giappone e Russia, trattato mai firmato dal 1945 ad oggi. I due leader sono concordi che il dovrà trattarsi di un accordo in cui non ci sia “uno che vince ed uno che perde”. I due si incontreranno di nuovo ai margini del prossimo vertice Apec.

 

Paolo Filipazzi

Paolo Filipazzi su Barbadillo.it

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