Nella carriera letteraria e cinematografica dell’inglese Alex Garland, agli statunitensi e agli Stati Uniti succede di tutto, incluso di occupare – anziché l’Iraq – la Gran Bretagna, come in 28 settimane dopo di Danny Boyle. Così non stupisce che in Civil War, da Garland stesso diretto e girato (ben due anni fa), la California e il Texas secedano per ragioni imprecisate. Le loro guardie nazionali, affiancate da frazioni dell’U.S. Army, marciano su Washington per riservare al presidente, barricato alla Casa Bianca, la stessa fine che, nel 1973, a Santiago del Cile, toccò a Salvador Allende.
Un inglese di buona memoria ha, dal 1776, i suoi motivi per sorridere di disavventure americane. Infatti incendiare la capitale, Washington, nel 1814, fu una ben modesta rivincita. Nell’ultimo secolo, infatti, l’Impero Britannico è diventato in maggior parte Impero Americano.
Il contesto storico non basta però a spiegare ciò che in Civil War viene mostrato: una guerra civile di cui si tace il perché, caos ricalcato non sui modelli del western militare a sfondo ottocentesco, ma sul modello iconografico del carnaio spagnolo del 1936-39 e, ancor più, jugoslavo del 1991-99.
Poiché California e Texas confinano col Messico e quindi sono sul percorso degli immigranti latinos (se ne vedono un centinaio in una fossa comune); poiché California e Texas sono Stati popolosi e ricchi (salvo di acqua), si può cogliere nella loro una ribellione contro gli Stati originari dell’Unione, i tredici rappresentati dalle strisce della loro bandiera.
Che il film appaia solo ora, così frollato – anche negli Stati Uniti, avviati a un’elezione presidenziale più drammatica del solito – è l’esito di un’abile attesa a fini di mercato.
*Civil War di Alex Garland, con Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Jesse Plemons, 109′. Nelle sale dal 18 aprile