Teatro. Un palcoscenico woke per “La Lupa” di Giovanni Verga a Catania

Due spettacoli riportano in scena una delle novelle più famose dell'artista etneo. Al Teatro Massimo Bellini l’opera lirica per la regia di Davide Livermore e il libretto di Giuseppe Di Leva e al Teatro Massimo di Siracusa lo spettacolo di prosa per la regia e il testo di Donatella Finocchiaro. Applausi e perplessità

Donatella Finocchiaro ne La Lupa al Bellini di Catania

Fin quando si è trattato di chewin gum, rock and roll, jeans e Coca Cola, la coabitazione culturale tra USA ed Europa è stata la benvenuta specie negli anni del secondo dopoguerra. Benvenuti anche la Beat Generation, i figli dei fiori e un certo modo di intendere il realismo nella letteratura (vedi Truman Capote o Harper Lee, Philip Roth o Charles Bukowski) e, per restringere il campo, nel teatro. Basti pensare a Luchino Visconti che, tra gli altri, nel 1951 firma la regia teatrale di “Un tram chiamato desiderio” da Tennessee Williams. La scenografia era di Franco Zeffirelli, che nel 1964 metterà in scena il dramma di Arthur Miller “Dopo la caduta”, in cui la moglie Marilyn Monroe è una diva in preda all’isteria e non la vittima sacrificale sugli altari di Hollywood. Almeno così pensava Monica Vitti che la interpretò per Zeffirelli. Nulla, però, che facesse sospettare l’attuale dilagare non di quella significativa scuola americana ma della cultura woke. Che non solo opera una crociata moralistica sulla stessa arte e letteratura americane ma pretende di essere una sorta di secondo sbarco in Normandia per l’Europa della cultura figlia del classicismo edonista generatore di impennate romantiche, di amplessi di Amore e Morte, di decandenti boudoir e femme fatale.

Rischio woke

La cultura cosiddetta progressista, figlia di un egualitarismo costretto a indossare la camicia di forza del politicamente corretto, sventola il woke con tanta alacrità da finire per apparire desiderosa di alzare il ditino della presunzione più che farsi scudo dei diritti femminili. Andando di woke in woke,  il rischio è perdere di vista l’obiettivo della consapevolezza (la miglior traduzione di woke in lingua italiana) dell’esistenza di ingiustizie sociali quali razzismo e sessismo. Una presa di coscienza che invita tutti a stare all’erta (traduzione più gergale) di fronte alla divulgazione di concetti pericolosi per un tessuto sociale inclusivo e rispettoso delle differenze. La toppa, però, si sta rivelando peggio del buco. Infatti, la deriva è quella non tanto di creare nuova cultura che sia specchio e analisi del tempo ma quello di mettere sulla cervice del passato il peso del presente, facendo fare al pubblico la fine di Dante piegato in due per ascoltare i superbi gravati dal masso e impossibilitati ad alzare gli occhi.

Lasciando stare l’aspetto puramente politico della questione, è almeno doveroso riflettere sulla opportunità di creare nuova arte woke piuttosto che “wokkizzare” quella già creata. Anche in virtù di una semplice considerazione: se la grammatica accetta l’evoluzione persino cacofonica delle flessioni di genere, la letteratura di per sé rigetta la cacofonia come il diavolo l’acqua santa. La letteratura, il cinema e il teatro, che a essa si ispirano, sono armonia e cavalcano il contesto con la bellezza ferina delle Amazzoni. Femmine erano le Amazzoni, guerriere e femmine. Capaci di sbranare per amore, come Pentesilea sbrana Achille nella tragedia di Heinrich Von Kleist. Come in fondo fa gna’ Pina del corpo di Nanni nella novella “La Lupa” di Giovanni Verga. La lupa, la gna’ Pina, sbrana Nanni di sesso e lui la sbrana di scure. Questo è il nocciolo della novella verghiana. Compresa nella raccolta “Vita dei campi”, la novella racconta la passione fatale di Pina, detta per questo lupa, per il giovane Nanni. Fatale è il fulcro della poetica di Verga. Il fato porta i personaggi verghiani, al pari dei personaggi della tragedia greca e a dispetto dello stesso verismo, nelle fauci di una ineluttabilità assassina di passioni e desideri. Nell’orizzonte di Verga magari troviamo l’idillio mai la pietas, qui nemmeno il primo. Tra la Lupa e Nanni c’è carnalità e sopraffazione. La lupa “aveva gli occhi da satanasso” e Nanni è il debole tentato che finisce per fare inutile opera di redenzione. Il tutto sullo sfondo una comunità contadina che esclude il ribelle alle leggi, soprattutto quelle della natura visto che Nanni è il genero di Pina. L’incesto viola l’ordine sociale e viola l’energia vitale del maschio il quale in questi casi ammazza, come interminabile la cronaca registra. Nonostante il finale ambiguo di Verga – la Lupa va incontro alla morte o viene assalita da Nanni?- o forse in ragione di esso- fare della Lupa verghiana un simbolo del tema femminicidio o parità di genere (Pina lavora come gli uomini, è libera, forte e prende decisioni) ha l’apparenza di un’operazione rischiosa. Il rischio è andato in scena lo scorso fine settimana con due allestimenti della novella.

Davide Livermore è al Teatro Massimo Bellini di Catania fino al 9 marzo con una partitura originale: un dittico su due classici “La Lupa” di Verga e a seguire “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello. Livermore è a oggi il più intuitivo regista del panorama teatrale italiano. Le sue regie sono invenzioni felici di sperimentazione del linguaggio, di commistione di generi per un teatro in cui estetica ed etica sembrano volteggiare sulle note di un valzer: leggere, pure, aeree. Con Giuseppe Di Leva autore del libretto e con il compositore Marco Tutino, già autori di una “La Lupa” del 1990, Livermore consegna alle scene un’opera decisamente specchio dei tempi, coerente alla sua poetica: rivisitare i classici vuol dire tradirli in nome di una atemporalità che ne rafforza il senso e li rivitalizza. Allora, fedele al libretto operistico l’ambientazione è in una città del Nord, il tempo sono gli anni ’60 con tanto di vinile di Peppino Di Capri, l’azione è l’assassinio di una donna rea di voler vivere liberamente il suo essere donna. Livermore guarda dentro l’ispirazione di Verga, immaginando la famelica sessualità di gna’ Pina dettata da un trauma e non dalla natura, passa il testimone della violenza a Nanni assassino e suicida. Dieci minuti di applausi coronano una lettura azzardata, discutibile nell’esegesi del testo ma sorretta da una messinscena tetragona di idee e realizzazione. Perché se si vuole fare di “La Lupa” un testo sulla violenza di genere che sia almeno geniale. E in Livermore la genialità è consustanziale alla creazione.

Un palcoscenico più in là, al Teatro Massimo di Siracusa, Donatella Finocchiaro è una sensualissima Lupa in uno spettacolo scritto e diretto da lei stessa in collaborazione con Luana Rondinelli. Anche qui una Lupa colpevole solo di desiderio, sfrontata e carnale, reietta dall’ottuso e ipocrita contesto, gelosa della figlia Mara.

La tentazione, parola chiave del testo verghiano, si incarna nell’interpretazione perfetta di Donatella Finocchiaro a fronte di un cast garbato ma privo di slancio. Anche qui la Lupa, per un beffardo scherzo favolistico, si fa agnella sacrificale al punto da chiudere lo spettacolo con una citazione da sacra rappresentazione.

Peccatrice&Santa

La Lupa da peccatrice a santa è un capolavoro woke. Certo, in punta di filologia letteraria è d’obbligo citare due episodi. Il primo risale al 1908 quando la compagnia Grasso mise in scena a Parigi la novella, ribaltando il finale: Nanni non ammazza Pina ma l’abbraccia. La donna vampiro di fine Ottocento era già stata ingurgitata dalla Nora di Ibsen, a questo punto Pina non si poteva sottrarre. Il secondo episodio è piuttosto una riflessione sul testo. I maschi del paese della gna’ Pina-scrive Verga- andavano in estasi al suo passaggio manco fosse Santa Agrippina. E’ lecito pensare, chissà, che Finocchiaro conosca la leggenda, recuperata da Giuseppe Pitrè, della deposizione della statua di Santa Agrippina nella grotta della Lamia, la strega di Mineo, paesino in provincia di Catania. Chissà, anche se quello che si è visto resta uno spettacolo ambizioso ma smarginato, tanto che la santificazione della Lupa appare ridondante se non incoerente. In sintesi: se woke dev’essere, sia almeno brillante e ben tessuto.

 

Riscrivere, ricontestualizzare, reinventare sono declinazioni della creatività e ha ragione Livermore quando dice che “..uno fa l’arte perché ha la possibilità di mettersi a disposizione di qualcosa di più grande che è la creazione”. Allora, si faccia creazione e non ri-creazione, lasciando ai classici, come diceva Calvino, il rumore di fondo.La Lupa” porta già con sé  il suo bagaglio di significati senza la necessità di caricarvi altro peso o di piegarla all’ideologia. Altrimenti la gna’ Pina penserà che non è stato Nanni ad ammazzarla ma il cero votivo che le ha bruciato la sottana.

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Daniela Sessa

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