Teatro. “Misericordia” di Emma Dante tra sogno e “munnizza”

Riparte dalla Sicilia, la tournèe dello spettacolo “Misericordia” firmato da Emma Dante con lo straordinario ballerino Simone Zambelli. Tappe a Siracusa e Catania. Applausi e standing ovation per i quattro attori in scena.

Arturo è un derviscio scomposto. Ha l’armonia roteante degli asceti mendicanti della religione sufi incuneata nelle sue membra disarticolate, in un corpo slegato dalla mente, dentro una lingua di parole imprigionate. Arturo è il protagonista di Misericordia, la piece di Emma Dante che dal suo debutto nel 2020 al Piccolo Teatro di Milano e poi a Parigi e ancora in Italia, continua a regalare al pubblico il teatro preso alle sue radici: sogno, corpo, voce, movimento.

E felice immondizia, munnizza nel dialetto palermitano della regista, quella che nella scena più caotica Arturo lancia in aria come fossero i coriandoli di un sogno mentre sono solo rifiuti maleodoranti, resti di una vita, la sua, e delle altre tre vite, vite di femmine madri. Quattro vite a chiamare il pubblico dal fondo di una scena minima (quattro sedie, oggetti a terra, tre coppie di ferri per la lana e qualche giocattolo) fino a sbattergli davanti, quel che sembra restare delle vite: i corpi. Corpi e carne. Sfrontata, oscena, sopraffatta è la carne di Nuzza (Manuela Lo Sicco), di Anna (Leonarda Saffi) e di Bettina (Italia Carroccio) anche quando pare trionfare in un’arringa primordiale di cellulite, pance, seni costretti in mutande e reggipetti, calze autoreggenti. Sopraffatta anche quando in un rapido vestirsi, svestirsi e rivestirsi le tre donne indossano il grembiule di una normalità negata. Solo che loro la normalità se la sono cresciuta e si chiama amore materno. L’amore per Arturo, quel bambino menomato dai pugni del padre alla pancia della madre, un’altra puttana come loro. Se lo crescono Arturo, non perché ogni femmina è mamma ma perché la cura e la purezza allignano anche nella miseria. Una misericordia tutta umana, la più religiosamente laica che possa manifestarsi tra il degrado delle cose e la rinascita del cuore.

Per amare l’arte di Emma Dante bisogna essere disposti a scendere negli inferi del mondo reale, laddove primigenio sta per brutale, violenza per fame, bruttezza per bellezza. Quando l’estetica del brutto fece irruzione nel ‘900 italiano era un occhio guercio (pensiamo a Luigi Pirandello, a Federigo Tozzi o a Ettore Scola) ma doveva arrivare la poetica di Emma Dante per trasformare le storture fisiche in dolente poesia. Farle volare in una dimensione feroce e pietosa, per niente aliena dall’ironia e dal comico.

In Misericordia  le storture trovano un’interprete eccezionale in Simone Zambelli. Ballerino e coreografo, Simone Zambelli è lo spettacolo dentro lo spettacolo. Scoperto da Emma Dante nelle sale del Teatro Biondo di Palermo, Simone Zambelli ha una carriera ancora breve ma segnata da due direttive, la sperimentazione e la ricerca.  Il suo primo lavoro autoriale Non ricordo (premio al Festival Inventaria 2019) vede un uomo, un ballerino camminare su una linea onirica che lo porta dal buio alla luce. In quella camminata interrotta dalla scomposizione delle braccia c’è l’embrione di Arturo, anch’egli in transito dal buio della stamberga in cui vive alla luce di un domani che arriverà al suono della grancassa. E’ qui che la genialità della regista ha incontrato la fisicità artistica di Zambelli: è venuto fuori un personaggio straordinario cui il ballerino ha dato voce e anima. Dice una sola parola,  ma ne ha tantissime altre che fanno corde vocali delle braccia, delle gambe, dei piedi. Il corpo di Zambelli si fa verticale vertigine, coreografia di strampalata grazia. I movimenti di Zambelli fanno carne dell’intuizione della regista: affidare alla danza muta l’urlo della misericordia. L’urlo lo lascia alle tre donne, tre parche che sferruzzano e parlano un misto dialettale di salentino, campano e palermitano ora stropicciato ora gridato. Viscere anche il linguaggio in questo spettacolo in cui alla musica è affidata la dimensione fiabesca. Un carillon, una banda, una ninnananna e la colonna sonora di Pinocchio di Collodi immettono nella semantica più immediata della messinscena.

Arturo si muove come il burattino dell’immaginario fiabesco per eccellenza, non ha madre, non è prima di essere quel pezzo di legno storto che le mani di un padre hanno levigato fino a farne un umano. Nella tensione civile di Emma Dante il padre ammazza di botte e la madre si ostina a dare alla luce e altre madri lo accolgono, lo amano, lo salvano. Arturo con un nome di così letterario ingombro (chi non può pensare all’ingenuo Arturo di Elsa Morante, sconfitto nel sogno paterno?) riscrive la favola di Collodi: si fa figlio di madri, va chissà verso il vero paese dei balocchi.

Una chiosa a questo punto è necessaria anche sulla scia dei lunghissimi applausi e della standing ovation che il pubblico di Siracusa  ha tributato allo spettacolo. Misericordia è teatro della destrutturazione: del corpi, del linguaggio, della realtà. Misericordia è anche un film. Ma non è una riscrittura. E’ un’opera diversa. Perché Emma Dante maneggia la materia teatrale e cinematografica in maniera mai scontata e banale: se lo facesse, non sarebbe Emma Dante. Sa che teatro e cinema non sono vasi comunicanti ma due espressioni diverse: il teatro è immediatezza, il cinema è mediazione. Misericordia, il film, scombussola le coscienze e gli occhi. E merita appalusi, ovazioni e sale cinematografiche che sanno puntare sulla Bellezza.

 

Foto di Masiar Pasquali

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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