La polemica. Meglio Nietzsche visto da Massimo Fini che da Rochedy

"Dichiararsi nicciani non significa convertirsi al culto del niccismo: “ripaga male il suo maestro chi rimane sempre scolaro”, ammoniva Zarathustra"

Nietzsche

Le riletture e le interpretazioni di Nietzsche, legate alla pubblicazione di alcuni recenti volumi di studi, hanno alimentato un inatteso dibattito su Barbadillo, unito a una grande attenzione del nostro pubblico, con migliaia di letture per ogni articolo pubblicato. In questo filone si inserisce la forte polemica dello scrittore Alessio Mannino contro il saggio “Nietzsche presente” del francese Julien Rochedy, che ospitiamo in pieno spirito libertario, pronti a proseguire in questa esplorazione delle mille pieghe del pensiero del filosofo tedesco. ***


Il vizietto di strumentalizzare Nietzsche è sempre in voga. Dopo esserci sorbiti la sua liofilizzazione a profeta del pensiero debole postmoderno (Vattimo, ma anche tutta la French Theory: Foucault, Deleuze, Derrida), è di recente uscito, in Italia, un tentativo di interpretazione che desta una certa sorpresa, almeno da noi, perché proveniente non da sinistra ma da destra. “Nietzsche presente”, si intitola il libro, edito da Eclettica, firmato dal francese Julien Rochedy, noto per essere stato a capo dei giovani del Front National di Marine Le Pen dal 2012 al 2014. 35 anni, consulente di comunicazione e autore di saggi che hanno fatto discutere (come “L’Amore & la Guerra”, un “vero e proprio assalto teorico contro il femminismo contemporaneo”), Rochedy è un Vannacci con svariati anni in meno, parecchie letture in più, molte meno copie vendute, e senza nemmeno il fascino della divisa. O almeno questa è l’impressione che dà compulsando questa sua attualizzazione dello “scriba del caos” a uso della destra, come ha detto l’editore italiano Alessandro Amorese (che è anche deputato di Fratelli d’Italia), impegnata “contro la deriva woke, la cancellazione della cultura e in difesa di un’Europa sovrana e identitaria”. Ora, com’era riduzionismo falsificante quello, per certi versi ancora imperante, messo a segno dai nicciani di sinistra (e su cui aveva fatto opera di pulizia filologica Domenico Losurdo, marxista di onestà intellettuale adamantina), è riduzionismo non meno mistificante questa “introduzione alla filosofia nietzscheana” apparentemente tale e, invece, subdolamente veicolo di quattro luoghi comuni in croce che di nietzscheano hanno poco o niente – mentre di rochediano, e presumibilmente di meloniano, certamente di più. Andiamo per punti.

  1. In ottemperanza alla lezione di Nietzsche secondo cui l’attività di un intellettuale non è che il riflesso della sua biografia, Rochedy correttamente procede partendo dalla vita del filosofo. Peccato che, eccezion fatta per qualche fuggevole momento (“la decadenza parla attraverso di lui”, ammette verso la fine), il giovane intellò non dà mostra di aver recepito quanto e in che modo abbia influito sull’opera il groviglio di sofferenze psicosomatiche che lo torturarono fin dall’età giovanile, per sfociare nel noto finale della demenza. Secondo Rochedy, passata la crisi più atroce, a 35 anni, Nietzsche cavalcò al galoppo lasciando dietro di sé i frutti migliori del suo genio, inabissandosi infine nella follia a causa di uno “sforzo sovrumano” di carattere “spirituale”, ritrovando però, quasi soavemente, l’“’innocenza meritata” del “fanciullo”, cosa che avrebbe, non si capisce perché, del “faceto”. Consiglieremmo, a lui e a tutti coloro che vogliono addentrarsi nella materia, di leggersi il ritratto biografico, rimasto insuperato per profondità e lucidità, che del malato Nietzsche ha fatto Massimo Fini a suo tempo. Lì emerge la condizione vera, tutt’altro che oleografica, di un Friedrich Wilhelm ostaggio di un terribile complesso materno che lo condannò a una fragilità patologica estrema, totalmente impedito con il genere femminile (altro che “sfortuna” con le donne, con le quali sarebbe stato “facilmente atto alla conversazione”, come s’inventa  Rochedy) e globalmente affetto da una repressione di istinti e una rimozione del corpo i quali, a lungo andare, lo fecero saltare come una pentola a pressione, instradandolo al manicomio – dove, per la cronaca, fu osservato imbrattarsi di feci e bere la propria urina. La solitudine in cui quasi completamente visse immerso non era affatto solo “intellettuale”, non si era “proscritto da solo”: pativa l’isolamento, avrebbe eccome voluto una compagna accanto a lui, la sua non era una scelta. Semmai, razionalizzando la mancanza di contatto umano nel principio dell’amor fati, se la raccontò come tale, chiudendosi ancor più in un soliloquio egocentrato a cui dobbiamo la sua mente eccezionale, ma anche la sua autodistruzione come uomo. E difatti è l’uomo Nietzsche che Rochedy contraffà praticamente in toto, trasformandolo in un eroe (sia pur concedendogli di essere stato, dato l’insuccesso in vita, un “loser”). Intendiamoci: che abbia avuto dell’eroico, la sua prolungata resistenza al deserto di sentimenti e al tormento dei disturbi, è indubbio. Ma di qui a farne un santino della conoscenza alata, ce ne passa. E tra l’altro, gli si fa torto doppiamente, visto che proprio lui mise in guardia dal non cadere in idealizzazioni di comodo. A favore di nessuno.
  1. Mentre Nietzsche sul cristianesimo non fu mai ambiguo, il suo esegeta della droite sembra esserlo un po’ troppo. “Una volta per tutte”, scrive con enfasi un po’ ridicola Rochedy per fare chiarezza, la morte di Dio non è “colpa” (?) dell’autore dell’Anticristo, ma si riferisce a una religione cristiana che “ha perso la sua superbia in Europa dopo aver regnato sulle coscienze degli uomini per mille anni”, ed è stata la “modernità” ad ucciderla, nel momento in cui non ne ha avuto “più bisogno (o crede di non averne più bisogno)”. Del resto Nietzsche, , sostiene Rochedy, non era poi così contento dell’avvenimento se mise in bocca l’annuncio dell’assassinio al “folle”, nel famoso aforisma della Gaia scienza. In ogni caso, “sintomo della decadenza” odierna sono “il relativismo e l’ateismo”. E qui torna buona la citazione mirata, chiaramente parziale come tutte le citazioni non inquadrate nel complesso della speculazione nietzscheana, della “tradizione” che, assieme allo “spirito classico”, a detta di Rochedy sarebbero stati i pilastri di saggezza difesi da Nietzsche. Bene: il filosofo, come pure sottolinea lo stesso Rochedy contraddicendosi, fu colui che squarciò il velo della classicità svelandone il fondo orrido, di insondabile caoticità (il “dionisiaco” della tragedia greca), ovvero dimostrando che l’ideale di purezza e perfezione era una proiezione illusoria. Quanto al presunto “tradizionalismo” di Nietzsche, fu Julius Evola a sostenere che, da questo punto di vista, Nietzsche fu incompleto, e sicuramente non ascrivibile a un filone di pensiero che recuperi la sapienza eterna che cova sotto la cenere delle rovine. Il superuomo supera l’uomo, vorrebbe oltrepassarne la natura limitata di mortale, appesantito dalle debolezze umane troppo umane, aprendo un altro capitolo della storia, e anche dell’antropologia. Con il che si liquida il passato, o per meglio dire lo si mette, per usare il linguaggio nicciano, “sotto di sé”. Nietzsche, che si autodefiniva “ateo per istinto”, non era un relativista, è vero. Era prospettivista: secondo lui, ogni prospettiva corrispondeva alla potenza del soggetto che ne è l’agente, e ciò non equivaleva a porre sullo stesso piano, come fossero interscambiabili, tutte le prospettive, che vanno piuttosto distinte in base a una gerarchia di vitalità. Tuttavia, spiacenti per Rochedy, Dio è morto e “resta morto”, e i recuperi di non meglio specificate tradizioni classiche (il francesino parla di radici “greco-romane”: ottimo, ma come rinverdirle, esattamente?) non hanno niente a che fare con la “grande politica” che, nei frammenti non pubblicati in vita, Nietzsche tratteggia come “amministrare economicamente la terra come un tutto”,  “allevare una razza di dominatori” da parte di “stirpi internazionali”, prefiggersi l’“annientamento di milioni di malriusciti”, inclusa la “castrazione” dei criminali. In altre parole, Nietzsche voleva andare oltre il nichilismo non tornando indietro, ma procedendo in avanti. Sinistramente, in avanti. Il tema delle radici e del radicamento, a rigore, non solo non è nietzscheano: è anti-nietzscheano. Ma forse, e anzi senza forse, Rochedy più che europeo è occidentale, come da quarta di copertina del pamphlet. E l’idea che la destra media – vorremmo dire mediocre – ha della ri-civilizzazione consiste in un’identità cristiana e patriottica più di facciata che di sostanza, visto che nella società capitalistica con gli Usa a modello, la sostanza, metafisicamente e materialmente intesa, è il potere liquefatore del denaro. Questo, è lo spirito dell’Occidente. E questo, fra le righe ma neppure tanto, è Rochedy. Ma certo non è Nietzsche, anticristiano radicale e sovranamente spregiatore di nazionalismi (questa “rogna del cuore”) e improbabili passatismi (“ai greci non si torna”). “Popolo, ceto, razza, professione, educazione”: tutti “casi assurdi” che dovranno cedere il posto a una guerra su scala mondiale di tipo puramente spirituale e ideologico, “tra volontà di vita e la sete di vendetta contro la vita”. Nietzsche patriota, Nietzsche identitario? Ma non facciamo ridere.
  1. Dichiararsi nicciani non significa convertirsi al culto del niccismo: “ripaga male il suo maestro chi rimane sempre scolaro”, ammoniva Zarathustra. È più che lecito, anzi, è doveroso, nel vivisezionare la struttura del suo pensiero, discernere quei salti logici ed empirici che ne fanno un edificio sì, con una sua stringente coerenza, ma con fondamenta parzialmente errate che lo rendono sbilenco e lo portano, a un certo punto, a pendere verso conclusioni palesemente aberranti. La visione che Nietzsche professava dell’animale-uomo – e che Rochedy prende soprattutto, e non a sproposito, dalla Genealogia della morale – si fondava appunto su un presupposto sbagliato. E cioè che i due poli per valutare la qualità di un essere umano, la forza (concepita come creazione attiva di valori reggendo la sofferenza) e la debolezza (l’incapacità di sopportare la tragicità della vita e il conseguente odio per la vita stessa), si incarnino in tipi umani così abissalmente ineguali da istituire un vero e proprio apartheid innato, congenito e sovra-storico. Ma la forza di volontà, che in sostanza Nietzsche pone come criterio discriminante assoluto, è un attributo del carattere che non esclude che l’individuo “forte” possa avere le sue zone interiormente “deboli”. Possiamo essere, e lo siamo, diversissimi per talenti, attitudini e robustezza d’animo, ma ciò non toglie che rimaniamo uguali nell’avere tutti una qualche mancanza, e ciò di cui tutti siamo bisognosi è trovare conforto e comprensione per la nostra, particolare mancanza. Il perfezionismo morale di Nietzsche, il cui nemico numero uno era proprio l’insopprimibile necessità della compassione, muoveva da un pregiudizio psicologicamente infondato e, diciamocelo pure, patologico e patogeno. Che poi i cristiani abbiano dato il via a una rivoluzione assiologica e antropologica, attuando un’inversione di valori in netto contrasto con il paganesimo, questo è lapalissiano. Ma il paganesimo politeista, con la diffusione dei monoteismi solari e mitraici, era già infrollito e in declino, e i Romani non erano più un popolo in armi, avendo delegato la guerra agli stessi barbari a cui soccombettero. L’operazione politica di “conversione” di Costantino fece il resto. Insomma, i “forti” non erano più tali, e i “deboli” li sommersero perché si rivelarono politicamente più capaci. Più forti, appunto, nella gestione del potere sociale e culturale. Nell’egemonia, diremmo oggi. Ma, soprattutto, che l’ethos pre-cristiano (il mos maiorum, per dirla in latino) sia stato una maschera di sostanziale amoralità, da “bestia bionda”, questo è storicamente e semplicemente falso. La distinzione fondamentale fra etica antica e moralità cristiana risiede nel carattere comunitario della prima che si rovescia nella seconda in centralità dell’individuo o, più precisamente, del singolo credente alla cui anima è promessa, per il tramite del Platone cristianizzato da Agostino, l’immortalità (“il colpo di genio del cristianesimo”, come lo stesso Nietzsche rilevò con acume). Razzista sociale ma non biologico, il nostro filosofo non riusciva a dar credito ad Aristotele, che con la formula “animale politico” rimandava alla comunità in cui la parte deve, o dovrebbe, vivere in funzione del collettivo, e non viceversa. Nietzsche questo non poteva accettarlo, data la premessa oggettivamente erronea che falsa l’intero suo discorso. Anch’egli, infatti, era nascostamente vittima di un preconcetto nei confronti della relazione in quanto tale, che lo portava a considerare onesta e verace la sola spinta aggressiva al dominio, e fallace e ipocrita l’empatia per l’altro, anche appartenente al proprio gruppo. Con metodo nietzscheano, potremmo affermare dire che siccome viveva i rapporti con il prossimo in termini arcaici, di forte/debole, superiore/inferiore, svalutava a priori l’istinto, non meno naturale, a immedesimarsi e prendersi cura del vicino, del simile, di chi fa parte di noi. Biologia e psicologia hanno chiarito in modo inequivocabile che, semplificando, Aristotele aveva ragione. Mentre Nietzsche, proiettando l’inabilità affettiva che lo azzoppava e nutrendosi di letture utilizzate a senso unico (il Tucidide dell’inquietante dialogo fra Melii e Ateniesi è anche il Tucidide del discorso di Pericle, in cui individualità e comunità si compenetrano), pare esaltarsi nel rinvenire solo l’“innocente” crudeltà nel fondo oscuro dell’umano, e non ce la fa a metterne a fuoco, per dir così, l’altra metà, parimenti innocente. Di qui la scelta – troppo unilaterale, avrebbe detto Jung – di elevare Dioniso a figura assoluta della “morale dei signori” da scagliare contro Cristo, nel quale riassume tutta la “feccia”, per dirla come sarebbe a lui piaciuto. Soltanto Dioniso, dunque, sugli altari. Soltanto il caos proliferante di forze. E Apollo, vale a dire la saggezza delfica del limite, della misura che intreccia la parte con il tutto, coscienza individuale e cosmo naturale? Che fine fa, l’Apollo del “nulla di troppo”? Accantonato, destituito, dimenticato. In questo suo rimuovere la lezione del tragico, vaneggiando di un superuomo che travalica i limiti dell’umano e ride del male, ancor più se inferto in nome di un megalomane voto di grandezza, l’ultimo Nietzsche travisò i Greci. Il dionisismo della fase finale era in realtà una caricatura, perché Dioniso e Apollo, fratelli indissolubili, non si possono disgiungere, essendo inestricabilmente complementari. Ecco, tutto ciò non sfiora nemmeno i pensieri di Rochedy, idolatra del niccianesimo più banale e, per giunta, triviale, in certi suoi giochini delle tre carte. Per non ammettere, infatti, che il Nietzsche anti-umanistico e sovvertitore può far saltare in aria qualunque convenzione morale e sociale, Rochedy ha l’immaginosa pensata di separare la morale dall’etica, bocciando la prima come “moralina”, ipocrisia imposta dalle “minoranze aggressive” e salvando la seconda, sostenendo che anche lui, il sommo, non questionava certo sulle buone usanze del popolo. Oh, sicuro: per Nietzsche bastava che il popolino stesse al suo posto, sgobbasse per l’ozio dei padroni e, quanto al resto, gli si concedesse pure la democrazia di massa, se questa dovesse rivelarsi, come ben intuì in largo anticipo, il sistema più scaltro per irreggimentare il gregge e imporre la tirannide (anche nel senso “più spirituale”, si premurava di precisare). Al virilista Rochedy, la maschia avversione del suo idolo per ogni genuino attaccamento (limite “femmineo”, avrebbe detto Friedrich) sa di “auto-cattività comunitaria”, che ha il difetto di ritorcere la violenza connaturata contro sé stessi arrivando, giù per li rami, alla gauche di Parigi, al “moralismo assoluto di un uomo di sinistra”. Che mestizia. Dalle altezze, mostruose, dell’apocalittico Nietzsche, alle bassezze della polemichetta destra-sinistra.
  1. A Rochedy, in fin dei conti, interessa esclusivamente usare Nietzsche come vetrina di richiamo per infilare qua e là i propri messaggi semi-subliminali, i bersagli della sua battaglia personale. Legittima, per carità. Ma, nello sfruttare il nome di Nietzsche, abusiva. Perché se da un lato, il pensatore che meglio diagnosticò il vuoto degli “ultimi uomini” farebbe fuoco e fiamme, oggi come ieri, nel disprezzare, scrive Rochedy, gli “Occidentali postmoderni con le loro piccole vite, addomesticati, mediocri”, il “paradiso progressista qui e ora”, “la democrazia e il socialismo”, “lo spirito mercantile e utilitarista degli anglosassoni”, gli “ideali di godimento, edonismo, uguaglianza, liberazione, materialismo, ricerca della felicità”, d’altro canto costituisce puerile appropriazione indebita attribuirgli l’idea di un “ordine conservatore”, alla Edmund Burke, da opporre allo Stato moderno. Così come è una forzatura ascrivergli la primogenitura di uno degli argomenti preferiti della destra identitaria, come la guerra di civiltà contro i “jihadisti”, davanti ai quali, presumibilmente, sarebbe rimasto rabbrividito, anche se sugli islamici in generale la sua opinione era di approvazione: almeno “abbiamo a che fare con dei maschi”, scriveva preferendoli agli smidollati cristiani. Avrebbe lanciato fulmini e saette, il buon Nietzsche, contro i “nuovi preti” del politicamente corretto, della cancel culture, della degenerazione woke, per non parlare delle femministe e delle esagerazioni su un cosiddetto patriarcato che resiste ai vertici del potere, a tutt’oggi largamente maschile, ma con una figura del padre in crisi nera (c’è da dire però che, quanto a misoginia, Nietzsche condivideva, estremizzandola, la cultura maschilista sua contemporanea). Ma al contrario di Rochedy, avrebbe dato un significato più positivo che negativo a una frase come questa: “Senza Dio, senza religione, senza uno scopo trascendente, i post-moderni sono ridotti a una piccola esistenza nell’immanente” (poiché è da tale orizzonte definitivamente nichilista che, per Nietzsche, possono generarsi gli anticorpi, il contravveleno anti-nichilista). Avrebbe perfino, forse, sottoscritto l’appello di certa destra a ritrovare l’orgoglio di essere europei, al di là della “colpevolizzazione” per il colonialismo del passato, ma i veri “buoni europei”, per lui, si sarebbero dovuti configurare come un’élite transnazionale, mista, che avrebbe fatto bene a lasciarsi alle spalle i confini angusti delle moderne patrie. Non saremmo così sicuri, quindi, che avrebbe visto poi così male le “decine di milioni di immigrati” a cui viene lasciato “invadere” per “puro umanesimo” le spopolate lande europee, se messi a confronto con noi debosciati occidentali che non figliamo più. Anche perché il suo visionario “partito della vita” avrebbe addirittura promosso l’“esasperazione di tutti i contrasti e fratture”, guadandosi bene dalle sceneggiare lotte di retroguardia, in fallo di reazione puramente difensiva. E potremmo continuare, per esempio evidenziando, se non fosse un aspetto da addetti ai lavori, quanto discutibile sia la lunga disquisizione rochediana sul valore accentuatamente metafisico di eterno ritorno e volontà di potenza, dal momento che Nietzsche, vorace lettore di fisica e fisiologia, si sforzò di dare un fondamento scientifico-sperimentale, naturalistico, alle sue intuizioni teoriche. 

Alle somme. Julien Rochedy ha confezionato un bignami che ha i suoi pregi, sintetizzabili nell’intento divulgativo, svolto bene grazie a una prosa limpida ed efficace, e nel riconoscere la carica sovversiva del Nietzsche-pensiero. Ma la sovversione nietzscheana non equivale a una conferenza per galvanizzare gli elettori di Éric Zemmour, o di Giorgia Meloni. Edulcorarlo, occultarne le tare di fondo, metterlo su un piedistallo e addobbarne la statua con slogans (“la Rivoluzione o il superuomo”, la spara grossa a un certo punto Rochedy confondendo piani e proporzioni), facendo dire a Nietzsche quel che non ha detto e trasformandolo in un simil-tradizionalista, è ingannare chi legge. Nietzsche era davvero dinamite, e di una distruttività impossibile da addomesticare, a destra come a sinistra. Ma fu sempre lui, con tipico paradosso, a fornire un rimedio che non negasse, ma mitigasse il radicalismo via via più esacerbato delle sue posizioni. Alla fine della Gaia scienza, il martellatore di idoli e trasvalutatore di tutti i valori si dipinge come “solo giullare, solo poeta”. Voleva dire che l’esistenza, una volta svelata nel suo non senso, non è che poesia trasfigurata, da non prendersi troppo sul serio, ed è perciò inevitabile incontrare l’ironia, e l’autoironia sua gemella, per il saggio che non si butti in crociate para-superomiste che tanto eccitano i Rochedy di turno. Il gai saber rappresenta il punto massimo d’equilibrio di un Nietzsche che in quel momento sapeva ancora ironizzare su di sé e sul mondo. La risata: appuntamento obbligato per un’intelligenza critica che ami la vita nella sue contraddizioni, nel suo gioco di specchi, nel suo darsi insensata, funambolica, malinconica e tragicomica. Di questa finezza di spirito, che fa di Nietzsche un uomo commovente oltre che un cervello di sensibilità acutissima, in libelli all’apparenza raffinati e in realtà rozzi come quello partorito da Rochedy, non c’è menzione né traccia. 

*Giornalista, scrittore, curatore della nuova traduzione di “La Gaia scienza” di Friedrich Nietzsche, Ibex Edizioni, 2023

Alessio Mannino*

Alessio Mannino* su Barbadillo.it

Exit mobile version