Teatro. Mario Incudine è Barbablù nella favola noir di Costanza Di Quattro

Approdato a Siracusa lo spettacolo diretto da Moni Ovadia. Super interpretazione dell'attore siciliano Incudine. La suggestione delle musiche di Antonio Vasta

Estetica del buio ed etica della pietà: tra questi due confini si accampa “Barbablù”. Lo spettacolo dal 2019, quando debuttò al Teatro Carcano a Milano, continua a sconquassare ossa, carne, cuore, coscienza, stomaco degli spettatori.

 

Non cerca empatia per strappare applausi, anzi questi vi grondano addosso proprio per questo. Liberatori? No, semplicemente spettatori ipnotizzati. Non cerca, “Barbablù”, né il virgolettato né il suo disgustoso personaggio, perdono perché ogni tratto dello spettacolo sta lì ad ammonire chi fosse tentato a farlo. Come accade spesso, per quelle malmostose forme di perdonismo a metà tra l’ignoranza e la negazione, quando si cercano giustificazioni per l’efferatezza nel tentativo di mettersi dalla parte giusta. Quella della verità o della menzogna? Su questa domanda ruotano tutto lo spettacolo e le due risposte. Tra Pirandello e Primo Levi, tra “La verità è la peggiore delle bugie” -dice Barbablù prima di andare incontro all’ultima sposa- e quel raccontare perché non accada mai più. Il racconto, la consegna della realtà alla parola che può truffare e truffarsi, blandire e blandirsi, rivelare e rivelarsi. Come un cunto- molto della tradizione orale permea la messinscena- c’è una formula truffaldina, blandente, rivelatrice “La allontanai dalla mia vita e dalla sua”. Così, ogni delitto, reso con la formula del tableau vivant (capricci della lingua: la didascalia esigerebbe tableau mourant), viene scandito dalla ferocia lucida e allucinata assieme di Barbablù, nella declinazione di una litote dell’imperdonabile. Gridano memoria e verità i fantocci delle sette donne ammazzate dal signorotto medievale, distribuite sulla scena con le facce, i colli, le vagine, le pance, le mani insozzate del loro stesso sangue, cavato dalle loro vene dal brutale assassino. Gridano vendetta, quella giusta di Dio e degli uomini: così dice Incudine negli “a parte” che fanno da ponte tra il “C’era una volta” della favola di Perrault e la cronaca di oggi. Appunto, la cronaca, che conta già 107 donne ammazzate nel 2023 e forse lo scorcio di dicembre ce ne consegnerà altre. E’ la cronaca il convitato di pietra di questo straordinario spettacolo, perché ogni spettatore a ogni donna esanime in scena accosta la faccia di una delle 107 vittime: madri, fidanzate, amanti, passanti. Ed è la cronaca portare il testo di Costanza Di Quattro dentro le maglie dell’idea di classico data da Italo Calvino “il rumore di fondo dell’umanità”. Costanza Di Quattro (scrittrice e drammaturga, premio Comisso 2023 per “Arrocco siciliano” e volto Rai) ha scritto un testo di perfetta geometria narrativa calata dentro una tessitura di feralità, emozioni e poesia. Tutto il testo è un inno al corpo della donna: quando quel corpo viene brutalizzato e imbruttito dal falso amore, in quel momento il corpo ha bisogno di cura. Con una lingua che non indietreggia di fronte alla realtà, che smembra il corpo per farcelo vedere prima nelle parole di sprezzo di Barbablù seduttore piccolo piccolo e arrogante, poi amputato sulla scena fino ai fantocci appesi nella scena finale (debito della regia a Perrault), Di Quattro consegna al tempo nostro le parole giuste per la rabbia, l’indignazione e la pietà.

Il numero sette, più che citazione da Perrault o un’evocazione cabalistica, si trasforma in un pretesto lessicale per regalare a Incudine il canto dei multipli del sette. Una sorta di catalogo in cui Incudine diventa l’anti Leporello: il gioco della seduzione si sposta dall’alcova alla tomba.

Perché ogni fiore reciso è un fiore morto come le sette donne dai sette nomi di fiori: Rosa morta perché voleva uscire dalla stanza, Viola perché voleva scrivere, Margherita perché voleva essere amata, Gelsomina che non ha retto allo stupro della sua infanzia, Dalia perché parlava troppo, Iris il cui amore non è bastato a salvarla dalla brutalità del possesso, Erica condannata per averlo reso padre. Infine, Primula che si salva perché la favola vuole così.

La regia

 

La regia di Moni Ovadia trasporta lo spettatore dentro un’atmosfera dark mentre le musiche di Antonio Vasta, in scena con la faccia dipinta come una maschera che non può ridere, fraseggiano lo spettacolo con gli strumenti della tradizione: zampogna, la fisarmonica, diapason, xilofono suonano note buie e anche l’accenno di mazurka non prelude alla festa ma alla morte. La morte che ha il colore blu della notte. I costumi di Elisa Savi (sue anche le scene) materializzano la cavalcata nel tempo della violenza: dalla corazza medievale alla redingote settecentesca fino alla giacca di oggi. Bellissimo è in particolare il manichino della dama con la gonna aperta su un pallone rosso.

Incudine è Barbablu in una delle sue migliori interpretazioni. L’attore, pardon l’istrione, infila nei panni del personaggio tutta la sua arte: cuntista, cantante, musicista. Il suo Barbablù punta dritto alla pancia e alla coscienza dello spettatore. Incudine possiede il ritmo della scena: crudele nei gesti, allucinato nello sguardo, sardonico nelle parole, imperdonabilmente folle.

L’interpretazione di Mario Incudine

Non è che sia un Mario Incudine che non ti aspetti, anzi. Di Mario Incudine il pubblico ha imparato l’arte come felice versatilità, come fuga centripeta verso la qualità della performance. Qui lo spettatore impara qualcos’altro, Che Incudine ha il carisma del mattatore, che può vestire ogni ruolo, perché ogni ruolo è recitato con anima e mestiere. Quando col fischietto fa girare Barbablù su se stesso in preda al delirio, quando seduto su un trono troppo alto calzando stivali col rialzo si fa piccolo, soprattutto quando seduto su un baule chiama il pubblico a riflettere sulle morti delle donne, Incudine è maschera e coro se per coro s’intende chi, nella tragedia classica, rappresenta la coscienza collettiva “Tutti Barbablù. Piccoli e vigliacchi Barbablù”.

Forse sta in questa frase il pregio del testo e della messinscena: non si punta il dito contro il maschio in un pericoloso svilimento del problema. L’operazione di questi cinque straordinari artisti (Di Quattro, Incudine, Ovadia, Vasta e Savi) rovescia la favola di Perrault. Nata nel XVII secolo in un contesto controriformista, Perrault storce in vizio la curiosità di Psiche e in ferocia l’inganno di Amore, portando alle estreme conseguenze il kafkiano assunto della favola come scrigno dell’angoscia e del cruento.

Di Quattro diffida di Barbablù quando gli mette in bocca parole, ahimè, troppo sentite “ Perdonami amore, oggi uccido me stesso” né gli dà il beneficio del trauma freudiano (come accenna il personaggio all’inizio) e fa dire a Incudine cuntista di oggi che la favola non ha luogo nell’orrore dei corpi uccisi delle donne “La fantasia fluttua, la realtà no”.

Barbablù” è uno spettacolo necessario. Necessario perché è un testo civile. Necessario perché è una straordinaria rivisitazione di Eros e Thanathos. Necessario perché è bello.

@barbadilloit

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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