«Clamoroso al Cibali!», si diceva negli anni Ottanta per enfatizzare un risultato inatteso (il Cibali è lo stadio del Catania, allora neopromosso in serie A). Oggi si potrebbe commentare «Clamoroso a Buenos Aires!» per sintetizzare il sorprendente risultato delle elezioni presidenziali in Argentina, dove il sempiterno peronismo era dato per morto, sepolto – anche – sotto il peso di un’inflazione che rasenta il 140% all’anno, e invece con un colpo di coda non solo andrà al ballottaggio con l’ultradestra liberista, aggressiva e un po’ caciarona, ma ci andrà anche in veste di favorito.
Massa, portabandiera di Uniòn por la Patria ma anche ministro dell’Economia in carica, si è attestato al 36,6%, staccando nettamente il superfavorito Milei di La Libertad Avanza (29,9%), che aveva trionfato alle Primarie di agosto e nei sondaggi di settembre era dato vicino al 40% delle preferenze. Ora i due candidati presidenti sono attesi da un’accesa campagna elettorale che durerà un mese (il ballottaggio è fissato per il 19 novembre), ma le posizioni sono totalmente cambiate: l’esponente peronista è al centro del ring e gode dell’enorme vantaggio non solo di chi è in testa, ma anche di chi ha recuperato posizioni e quindi fruisce dell’inerzia della rincorsa; Milei invece è finito all’angolo e, continuando nella metafora boxistica, appare come un pugile suonato che cerca disperatamente di riconquistare punti.
Entrambi cercheranno voti nel bacino dei candidati sconfitti (oltre a Bullrich, il peronista “eretico” cordobese Juan Schiaretti, con il 6,7%; e la marxista Myriam Bregman, 2,7%) ma anche tra chi ha votato scheda bianca e fra gli astensionisti (circa il 26% degli aventi diritto). In questo senso il discorso fatto da Sergio Massa quando i risultati non erano ancora definitivi è stato molto chiaro: ha parlato già da presidente di tutti gli argentini, e non da capo di una coalizione, e ha promesso che se vince formerà un governo di unità nazionale nel quale troveranno posto non solo esponenti peronisti, ma anche i “migliori” soggetti delle altre forze politiche. Un’apertura esplicita a quella parte di Juntos por el Cambio poco convinta dalla candidatura di Patricia Bullrich e piuttosto lontana dalle posizioni oltranziste di Milei. E soprattutto un invito a Schiaretti, debole sul territorio nazionale ma fortissimo nella provincia-chiave di Cordoba, di cui è stato anche governatore. E in un’intervista prima delle elezioni, Schiaretti non si era sbilanciato ma aveva dichiarato che non avrebbe mai votato Milei.
Una coalizione che usa parole d’ordine di facile presa sugli “arrabbiati” ma assai pericolose: privatizzare scuola e sanità, abolire la banca centrale, adottare il dollaro come moneta nazionale, privatizzare industria e risorse naturali del Paese (leggi cederle a società straniere), chiudere lo storico contenzioso con la Gran Bretagna per le isole Malvinas (cioè riconoscerle britanniche). Persino rendere libero il commercio di organi, perché si tratta di una compravendita come un’altra. Fino agli insulti a Papa Francesco, qualificato come «un imbecille» che «rappresenta il Maligno sulla Terra».
Adesso a Milei restano poche cartucce: se abbassa i toni del dibattito politico rischia di scontentare l’ala più dura dei suoi elettori, se invece continua ad alzare il tiro si gioca gli indecisi e la componente moderata di Juntos por el Cambio, alla quale sta puntando da ieri sera. Per farlo prova la carta della chiamata alle armi in nome dell’anti-kirchnerismo, cioè della frangia più di sinistra del peronismo impersonata dall’ex presidentessa Cristina Fernandez Kirchner, che negli ultimi anni ha perso smalto anche per gli scandali giudiziari in cui è stata coinvolta.