Il Punto (di F.Cardini). Immigrazione, i flussi causati dallo sfruttamento delle lobby sulle risorse dell’Africa

I crimini del colonialismo in tempi sia lontani sia prossimi sono successivamente tornati o stanno tornando a galla

Il continente africano

Franco Cardini

“Da questo luogo e da questo giorno comincia un’era nuova nella storia del mondo”. Tale il lapidario, profetico avviso di Wolfgang Goethe allorché, all’indomani della battaglia di Valmy del 20 settembre del 1792, egli si trovava soldato dell’esercito prussiano in rotta, tra la fame, il freddo e la dissenteria.
Quando cominciano, nel mondo, le ere nuove? È un vecchio problema, e non solo di periodizzazione. Certo, le “ere” storiche sono una convenzione; e ancor più lo sono gli avvenimenti che noi prendiamo volta per volta a simbolo del chiudersi o dell’aprirsi di un’epoca. La presa della Bastiglia del 1789 e la battaglia di Valmy del 1792 continuano tuttavia ad occupare, nel nostro immaginario, un ruolo analogo alla conquista di Granada e alla scoperta del Nuovo Mondo del 1492. Sappiamo bene che si tratta di simboli e di convenzioni: tuttavia, non è solo per abitudine scolastica se restiamo intimamente fedeli all’idea schematica che l’età moderna sia sorta nel 1492 e tramontata, appunto, nel 1789-92 per dar luogo all’età contemporanea.
Quelle due età sono entrambe tuttavia da ascrivere al più ampio e complesso momento della storia di un “Occidente” che rappresenta l’espansione dell’Europa fuori di se stessa, l’imposizione della sua supremazia e l’avviarsi di un’economia-mondo: di quel processo che ormai siamo abituati a definire “globalizzazione” o “mondializzazione”. Tale lungo momento, durato all’incirca mezzo millennio, è forse correttamente o comunque plausibilmente definibile appunto nel suo complesso come “Modernità”: per contro, il da troppi celebrato “Postmoderno” permane in realtà nell’indefinita e indefinibile bruma dei concetti ardui a comprendersi. E si apre un problema destinato a ricevere complesse, contraddittorie risposte: “Occidente”, “egemonia dell’Occidente sul mondo” e “Modernità” sono dimensioni considerabili come sinonimiche?
Al fine di tentare una risposta adeguata concentriamoci su quanto è accaduto e sta accadendo fuori d’Europa. Nella seconda parte del XX secolo presero ad affermarsi, in parallelo con l’avanzare dei processi di “decolonizzazione” politica e di “neocolonializzazione” finanziaria, diplomatica e tecnologica, varie forme di rivendicata o di dissimulata supremazia di movimenti neocristiani o postcristiani successori del colonialismo storico nei confronti d’indigeni “pagani” o “infedeli” o neoconvertiti o rimasti sinceramente e più o meno solidamente cristiani. Ciò era destinato a non rimanere privo di risposte da parte né di alcune componenti del panorama del fondamentalismo religioso africano, né di gruppi religioso-politici in tutti gli altri continenti.
I crimini del colonialismo in tempi sia lontani sia prossimi sono successivamente tornati o stanno tornando a galla: e insieme con essi la realtà che sia stato in buona parte grazie a quei crimini, ben noti almeno alle nostre classi dirigenti, che il mondo occidentale – dopo la “falsa partenza” della rapina spagnola e portoghese dell’oro e dell’argento americani in pieno Cinquecento, che provocarono la “rivoluzione dei prezzi”, cioè l’inflazione galoppante e l’impoverimento generalizzato – ha potuto permettersi, giovandosi del controllo da parte delle lobbies finanziarie e imprenditoriali statunitensi ed europee nonché sovente con la complicità degli stessi governi locali, di gestire la sistematica spoliazione degli interi continenti africano e latinoamericano; da qui, fra l’altro, l’esodo massiccio di migranti indigeni[1] che fuggono da quelle immense aree depresse il suolo e il sottosuolo delle quali rigurgita peraltro di ricchezze drenate. Dalla Bolivia all’Africa occidentale, la gente più miserabile del mondo lascia i suoi paesi dal suolo e dal sottosuolo ricchissimi, al pieno possesso delle cui risorse avrebbero pur diritto secondo la Carta delle Nazioni Unite, per cercare asilo e lavoro in paesi divenuti opulenti grazie alla secolare rapina di quegli stessi disgraziati popoli. E la rapina continua: e non ci sono conferenze internazionali, né denunzie alle Nazioni Unite, né appelli all’opinione pubblica internazionale, né patti intergovernativi bilaterali, né progetti di sviluppo che tengano. Un’obiezione frequente a tutto ciò è che quelle società “non hanno avuto il tempo”, o comunque “non sono state in grado” di conseguire “un adeguato livello di maturità sociopolitica e socioculturale” e in ogni modo la padronanza del know-how necessari a gestire la loro sovranità. Ma appunto il provvedere a far sì che la raggiungessero è stato, per secoli, l’alibi corrente per mantenere l’occupazione: e il “tempo necessario” ci sarebbe ampiamente stato. Anzi, in alcuni casi vi sarebbe tout court: e gli stessi regimi coloniali hanno avuto tutto l’interesse a costruire nei paesi assoggettati un’oligarchia tecnicamente matura e sufficientemente all’altezza delle funzioni di governo. Che poi abbia fatto di tutto per renderla docile e magari corrotta, è un altro discorso. E che, costretti ad andarsene, abbiano in modo più o meno abile e con la complicità di ambienti del paese alla vigilia della liberazione organizzato quello che eufemisticamente si usa definire una “transizione postcolonialistica”, vale a dire un’almeno parziale “ricolonizzazione” de facto, un altro discorso ancora. La violenza, la frode, la corruzione sono stati gli ingredienti strutturali del colonialismo; e il colonialismo una delle colonne portanti della vita, della potenza, della prosperità dell’Occidente; e l’abolizione dello schiavismo, da un certo momento in poi della nostra storia sette-ottocentesca, è stata del tutto funzionale e compatibile con la dinamica dello sviluppo delle nostre classi dirigenti.
Questo atroce non-senso, questo scandalo senza nome, i signori di Wall Street e della World Trade Organization nonché gli elitari frequentatori dei meetings di Davos lo conoscono perfettamente. Esso ha provocato e continua a provocare, ha prodotto e continua a produrre guasti immani, comprese le ricorrenti epidemie di terrorismo, le carestie[2], le guerre e la tragedia senza fine dei boat people, quelli che noi chiamiamo – con un’espressione da disinvolto turismo balneare – “gommoni”.
La casistica dei misfatti coloniali riempirebbe intere grandi biblioteche e quel poco che se ne sa o che se ne potrebbe sapere anche solo informandosene senza sforzo grida da solo vendetta al cospetto di Dio. Ma non parlano mai o quasi mai seriamente di queste cose né la nostra educata e schizzinosa società civile, né i media asserviti alle lobbies alle quali rispondono paese per paese i governi e i partiti che ospitano nel loro stesso seno o tra i loro finanziatori membri dei “comitati d’affari” lobbistici, né la società civile e la scuola che ne sono degne e magari inconsapevoli complici con il loro conformismo uso a distribuire patenti di democrazia e di dittatura a comando e a sbattere mostri in prima pagina in modo da coprire mostri ancor peggiori che si nascondono dietro di essa. Non si parla mai di queste cose. I delitti continui e seriali di quella grande Shoah dinanzi alla quale il pur orrendo martirio del popolo ebraico fra ’33 e ’45 – cominciato invero molto prima, e non ancora terminato nei suoi esiti e nei suoi epigoni – diventa solo una “piccola Shoah”. Basti pensare – ma citiamo qui solo qualche caso “classico”, di quelli da innocua vetrina – al buon re Leopoldo II del Belgio, cattolico e liberale, e a quelle miniere congolesi che dal 1885 furono gestite non dal suo piccolo stato, bensì direttamente da lui tramite i compiacenti uffici del “libero sodalizio” Association Internationale Africaine. Il territorio “libero e indipendente” controllato da re Leopoldo era grande quasi quanto l’attuale Repubblica Democratica del Congo. Fu un disastro di proporzioni immani: sfruttamento illimitato anche del lavoro obbligatorio dei minorenni, massacri di intere regioni (i miliziani della Force Publique tagliavano una mano a ciascuna delle loro vittime “sorprese in ozio” o mentre tentavano la fuga, e la presentavano all’incasso: venivano pagati un tot per ogni mano) e perfino un’epidemia influenzale che tra 1889 e 1890 infuriò anche nel continente europeo.
I disagi dell’immenso continente africano sono molti e complessi, nonché differenti da zona a zona. Se l’area meridionale ha trovato in qualche modo un suo equilibrio dopo il coraggioso esperimento di governo di Nelson Mandela – paladino peraltro, come a suo tempo sia pur con differenti accenti il libico Gheddafi stesso, di un’unità continentale panafricana che appare tuttavia lontana dal realizzarsi[3] – altre regioni annegano attualmente nelle fame e nel disordine.
Ma ora che la tragedia del boat people che ormai da anni sta riducendo i fondali del nostro Mediterraneo a un immenso cimitero sul quale stanno speculando miriadi di criminali mercanti di carne umana e di politicastri mercanti d’odio ha raggiunto livelli intollerabili, dev’esser chiaro che la principale ragione dell’esodo dal continente africano risiede nelle conseguenze dello sfruttamento sistematico e indiscriminato delle sue risorse del suolo e del sottosuolo drenato dalle imprese legate alle lobbies soprattutto statunitensi, europee, ora anche russe e cinesi e i proventi delle quali vengono riversati nei forzieri di quei paesi estranei all’Africa, beninteso con l’assenso più o meno organizzato dei governi e delle oligarchie locali ma senza alcun beneficio né diretto né indiretto per le popolazioni, per il loro tenore di vita e per il loro sviluppo. Unico rimedio per garantire un minimo di sopravvivenza: l’esodo in massa delle forze migliori.
Quest’intollerabile assurdità è da anni ben conosciuta dai molti “organi competenti” (sic…) delle Nazioni Unite: ma prendere al riguardo risoluzioni efficaci a maggioranza nell’Assemblea ONU è improponibile. Dovrebbe intervenire i Consiglio di Sicurezza: ma il fatto è che esso è composto dalle cinque superpotenze mondiali o ritenute tali (i “Quattro Grandi” vincitori – ancora!… – della seconda guerra mondiale, più la Cina), ad almeno una delle quali afferisce ciascun paese sfruttatore in qualunque modo interessato al mantenimento dello statu quo africano. Ciascuno dei membri del Consiglio di Sicurezza è detentore del “diritto di veto”” nei confronti di qualunque delibera dell’Assemblea. Basta un solo “no!” da parte di uno di loro, e tutto si ferma. Stanti così le cose, è ridicolo che l’opinione pubblica mondiale venga di quando in quando scossa dai media solo allorché alla ribalta del continente nero si affaccia con maggior evidenza la diplomazia di Mosca o quella di Pechino.
Cyril Bensimon (Un continent en quête de nouveaux horizons, in Bilan du Monde 2023,edito annualmente dal quotidiano francese “Le Monde” pp. 142-43), conclude il suo articolo peraltro denso di dati con la riduttiva considerazione che, a causa dell’indecisione degli stati africani nella scelta della grande potenza mondiale alla quale appoggiarsi, la Francia sta perdendo influenza nel continente. Da un punto di vista obiettivo, ciò è poco rilevante (e resta comunque il fatto che la Francia siede nel Consiglio di Sicurezza).
È invece significativo che già nel giugno del 2022 il presidente senegalese Macky Sall abbia incontrato a Soci sul Mar Nero Vladimir Putin, confidando proprio a lui il disagio del suo paese obbligato a subire le conseguenze almeno economiche della guerra russo-occidentale e a osservare la disciplina sanzionatoria unilateralmente imposta dagli USA contro la Russia. Ma del peso di quelle sanzioni su tutti i paesi del mondo (valga l’esempio dell’Egitto, dove le conseguenze del conflitto russo-occidentale hanno innalzato il debito pubblico fino al 90% del PIL: cfr. Bilan du Monde 2023, p. 172), mister Biden & Co. mostrano di non preoccuparsi affatto.

[1] Nel senso etimologico di questo termine ambiguo ma divertente – letteralmente, all’origine, “nativo delle Indie”, naturalmente occidentali, poi generalizzato –; sarebbe più appropriato sostituire in genere l’aggettivo “indigeno” con quello “endemico”, se ciò non creasse bizzarre analogie con l’uso che ormai se ne fa in epidemiologia. In questo caso, l’uso del termine inglese “internazionalizzato” native è ordinariamente opportuno.

[2] Prima della sistematica conquista da parte dell’Europa, il continente africano godeva nel suo complesso della sovranità alimentare.

[3] Ed è da notare che l’Unione Sudafricana si è avvicinata alla “Conferenza di Shangai” egemonizzata dalla Cina.

Franco Cardini

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