La molla interiore degli hobo: perché rileggere “Un povero bianco” e “Studs Lonigan”

Sul finire del secolo scorso avviene la crisi della civiltà agricola americana, il processo di industrializzazione presenta il suo prezzo sociale, gli scrittori Anderson e Farrell ne subiscono il giogo

Il povero bianco di Anderson

Tra lo scrittore, il personaggio e il lettore di fatto si costituisce un triangolo amoroso, purtroppo l’ultimo sovente è infedele.  Chi scrive è un ladro, rubacchia in giro, fa il trenino con quelli venuti prima, e aggiunge “il rinfrescume” il fondo dei piatti dell’anima sua. Nasce Hugh il protagonista e c’è un rapporto incestuoso, la creatura è familiare ma Sherwood Anderson con Hugh è padre arcigno, severo. Sembra pentito dell’espurgo dalla sua fantasia. Hugh è indolente, impacciato. Ha quei buchi dalla vita, cade in trance, assorbito dalla natura ha con lei degli amplessi, specie con il vecchio Mississippi. Il suo liquido torbido per Hugh è amniotico, ci ritrova la sua infanzia.  Quando è preda di incubi vi scorge la folta schiera degli annegati. La speranza, dell’autore e di noi lettori, è che le sue assenze siano causate dalla malattia del pensare, cioè che abbia pensieri.

Anderson arriva a titolare il libro “Un povero bianco”, poor white, termine spregiativo riservato ai neri. Hugh è analfabeta, l’energica moglie del capostazione, Sarah Shepard, si fa maestra e lo costringe ad una educazione scolastica. Peccato che presto ci sarà il commiato di lei e il marito. Non sono precari, l’occupazione è fissa ma li coglie la frenesia di muoversi, la molla interiore degli hobo. “L’americano non tollererà di essere inscatolato come un topo in trappola,” così Max Lerner.

Hugh è nato e vive in una cittadina del Missouri ma i progenitori del catino abitativo provengono dalle colline del Kentucky dove vegetano strani esseri. Hanno poco cibo e i bambini sono “sparuti e gialli”. Non hanno soldi per acquistare degli schiavi da far lavorare.  Da lì può essere sceso il campagnolo Li’l Abner, l’eroe imbranato dei Comics, per finire nelle strisce del “New York Mirror”.  

Dalle montagne gli autoctoni si spostano alle sponde fangose del fiume e continuano a sognare ma presto tutto cambierà. Il vecchio mondo sputerà in quelle terre la sua spazzatura a imprimere un’accelerazione. La marea di europei che arriva, prorompe, sarà una iniezione di “argento vivo”, di frenetico attivismo. Cesare Pavese accomuna il Middle West al suo Piemonte e aggiunge il vino.  

Non bisogna generalizzare sulla qualità dei nuovi venuti. Nel 1620 arrivano i Padri Pellegrini sulla Mayflower, sono i puritani fuggiti dalle persecuzioni religiose. Promulgheranno il Thanksgiving Day e se nei ristoranti americani viene tuttora servita una brocca d’acqua lo dobbiamo a loro. È per ricordare che si può non bere l’alcol, un retaggio del movimento per la temperanza. 

Sherwood Anderson, rifiutato dagli editori: Pavese lo definisce il maestro di Hemingway e Faulkner.  Emilio Cecchi scrive che è l’ideatore e il pioniere della nuova prosa americana. Lo stile è una fonte limpida, priva di manierismi, c’è la lotta contro le frasi fatte.  E contiene quei fatti che sfuggono, quelle pause di trama, che sono il protocollo del nuovo realismo.

Studs Lonigan di James Farrell

si propone con il suo “Studs Lonigan” e contesta subito la possibile collocazione e interpretazione del ragazzo cattolico irlandese che ci presenta. Studs Lonigan non è da slums, troppo semplice una povertà spirituale generata dalla miseria, no, dev’essere prodotta da altro. Evita il meccanismo sociale automatico: povero eguale meschino.   C’è subito l’equivoco della povertà di spirito, l’autore la indica come negativa mentre la Chiesa parla di beatitudine. Poi Farrell chiarisce che il peccato è dato dal mito del successo e del progresso americano.  Cioè colpevolizza il cemento che edifica il nuovo mondo, la nuova potenza mondiale.

Evidenzia l’ignoranza dei poveri migranti ma Studs, loro nipote, non è né un barabba né un gangster. È un normale giovane americano. Mette le mani avanti, sicuramente pioveranno i difetti, gli scrittori sono ambigui. Mentre Hugh medita, Studs fa a cazzotti in strada con i coetanei ebrei e italiani.  E del proibizionismo se ne fregherà sfidando il rischio dell’alcol metilico.   Abbasso Hoover!

Anderson ha un ripensamento sulle risorse cognitive di Hugh e lo fa diventare inventore di macchine agricole per risparmiare la fatica ai contadini, ma per lui gli uomini rimangono insetti molestati.  

Farrell si innamora di Studs dei suoi modi sguaiati, suo malgrado gli piace, e per liberarsi del malloppo lo fa morire giovane, trentenne. Al capezzale dispone anche una Catherine, la sua donna, incinta: una rivalsa isterica dello scrittore. Questo a peggiorare la punizione. Sembra che Studs muoia non per la pioggia presa e la polmonite ma  per un deperimento provocato dai suoi convincimenti retrivi, reazionari.  Per il bere, e il biliardo… La cosa non regge, si può mancare giovani ed essere santi come Domenico Savio morto quattordicenne. 

Studs Lonigan non ha bisogno dell’apporto, della misericordia di Farrell, è conscio. Nel suo delirio esclama: ”Studs Lonigan sei fottuto, sei finito!”  Riceve la visita immaginaria del Presidente Wilson, ha gli orecchini verdi e con boccacce dice: “Accorrete sotto le bandiere.” La signora Jackson dimena la pancia tatuata… C’è il prete, questo vero, con le sue frasi in latino a torturare Studs che vorrebbe dormire. L’agonia è prolissa. Nel 1960 è uscito  il film: “Vivi con rabbia”  dedicato a lui, a Studs Lonigan. 

Sul finire del secolo scorso avviene la crisi della civiltà agricola americana, il processo di industrializzazione presenta il suo prezzo sociale, gli scrittori Anderson e Farrell ne subiscono il giogo.  Sono i testimoni di questa gigantesca sofferta trasformazione e ne sono angosciati, avviluppati ai riti del passato. Il Progresso spazzerà tutto e il loro posto sarà preso dagli scrittori del fare, non più “primitivi” e cultori del marketing letterario. 

America anni Trenta, siamo alle dust bowl, le tempeste di sabbia, siamo al big crash, il giovedì nero, alla fuga di Tom Joad verso gli aranceti della California arrancando per la Route 66. (“Furore” di John Steinbeck, 1939.) 

Le clessidre si rovesciano e sono tante tante. “I have a dream”, io ho un sogno salmodia Martin Luther King. Nell’Aprile del 1968 un colpo di fucile alla testa lo uccide. Hugh, Studs Lonigan e tanti altri hanno frainteso, hanno creduto che volesse impossessarsi dei loro sogni.

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Gianfranco Andorno

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