La geopolitica anglo-americana e il mare

"Talassocrazia" è l'interessante saggio di Marco Ghisetti sui rapporti di potere globali legati a terra, acqua e aria

Geopolitica

Le descrizioni metodiche degli spazi, degli equilibri e della distribuzione del potere tra gli Stati rientrano tra le principali modalità di un approccio geopolitico alle lrelazioni internazionali.  Se tale tipo di analisi conservi validità di fronte alle profonde trasformazioni economiche, tecnologiche e militari del nostro tempo è uno degli interrogativi che pone Marco Ghisetti (autore di “Talassocrazia – I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense”, pubblicato nel 2021 da Anteo edizioni), comparando il pensiero di “pionieri” e classici della materia – Mahan, Mackinder e Spykman – vissuti a cavallo tra il XIX e il XX secolo, senza trascurare le più recenti evoluzioni.     

Potenze marittime e potenze terrestri

Che la disquisizione non riguardi esclusivamente ambienti accademici si evince nel corso di una narrazione basata in gran parte sulla centralità del dominio del mare e del controllo dei suoi punti nevralgici, sulla contrapposizione tra potenze navali e telluriche, sulla perenne necessità per gli Stati Uniti – potenza di fatto “insulare” erede dell’impero britannico – di espandersi alla ricerca di nuovi mercati e di dotarsi, sia in tempo di pace che di guerra, di una flotta efficiente anche per ragioni di difesa nazionale.

La rilevanza di fattori quali la geografia come elemento permanente, l’illusorietà dell’idea secondo la quale i conflitti di interesse tra nazioni “civili” non possano sfociare in guerre e il peso determinante dell’azione umana introduce il dibattito su categorie impercettibilmente mobili come il “cuore della terra”, l’area-perno del continente asiatico estendibile di fatto alla Germania, priva di sbocchi sul mare e fulcro della potenza terrestre, riserva inesauribile di materie prime dalla quale traggono origine le ricorrenti minacce per la supremazia di Washington.

Gli approfondimenti sulla special relationship tra quest’ultima e Londra offrono spunti di riflessione sulla scelta quasi aprioristica dell’Inghilterra (geograficamente “parte dell’Europa”) di boicottare sistematicamente l’idea di un continente unificato anche perché – come ricordato ormai anni fa da Jean Thiriart – ciò avrebbe provocato la creazione di una forza in grado di invaderlo. In tal senso è interpretabile il monito di Mackinder – sostenitore convinto nel 1943 di un’alleanza  allargata all’Unione sovietica e alla Francia in qualità di “testa di ponte” – affinché gli Stati Uniti partecipassero attivamente alle politiche dell’equilibrio patrocinate dal Regno di Sua Maestà britannica, orientate a contrastare nelle vesti delle potenze anfibie il nemico di terra tedesco.

L’antinomia tra i popoli marittimi, democratici e idealisti da un lato e quelli terrestri, autoritari e organizzatori dall’altro non maschera peraltro talune debolezze, sottolineate nel momento in cui Mahan sostiene, per esempio, che gli embarghi economici e alimentari provocano bassi costi di vite e sofferenze e che l’apertura globale al commercio e ai processi di vita europei generano in automatico benefici per l’intera umanità; oppure quando Mackinder elogia la tendenza britannica a stipulare alleanze con i paesi più deboli omettendo di chiarirne gli intenti  divisori e, peggio ancora, i massacri perpetrati a danno degli irlandesi.

L’introduzione del termine Eurasia – la grande unità geografica formata da un centro, da una mezzaluna interna (peninsulare europea, asiatica sudoccidentale, indiana e cinese) e una esterna (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone e Australia) – come concezione del mondo intimamente connessa all’idealizzazione dell’uomo “continentale” viene accompagnata dal dispiegarsi di tre questioni cruciali: la divisione in due metà tra loro fisicamente molto diseguali, la delimitazione dell’Europa lungo una linea divisoria – quella degli Urali – considerata da più parti insoddisfacente e la complessa disputa intorno all’identità della Russia, sostanzialmente sospesa tra un substrato europeo e un elemento tartaro-asiatico.

L’assunto secondo il quale il paese appartenga ad una civiltà euroasiatica è stato recentemente rivisitato e in parte ideologizzato dalla corrente di pensiero neo-euroasiatista che, nel nome della cooperazione economica, politica e militare di due attori “obbligati” dalla storia e dalla geografia a condividere un destino comune, osteggia energicamente lo “scivolamento” del vecchio continente nello stato di subalternità verso gli Stati Uniti e la Nato; una prospettiva esattamente speculare a quella che propugna, dalla sponda opposta dell’oceano, l’espansione verso est dell’Europa e dell’Alleanza atlantica, utilizzate come avamposti “democratici”.

La nuova egemonia statunitense 

La natura profondamente anarchica della comunità internazionale e la costante lotta per il potere  inteso come bussola della politica estera delle nazioni sono i capisaldi che guidano Spykman all’elaborazione, a seconda guerra mondiale in corso, della strategia “di contenimento” dell’URSS; una visione estremamente realistica attribuisce ai vari paesi priorità divergenti, all’equilibro planetario (suscettibile di modifiche alla stregua di un campo magnetico sottoposto al cambiamento della forza relativa o all’emergere di nuovi poli) i tratti dell’instabilità e agli Stati Uniti, agevolati da una collocazione geografica invidiabile, un ruolo dominante.

L’insufficienza del dominio del mare a garanzia di una posizione egemonica è d’altra parte il principale giustificativo della teorizzazione del “diritto” dell’amministrazione a stelle e strisce ad insediarsi militarmente e in modo permanente sia nei territori d’oltremare sia nella zona-cerniera della terra di confine euroasiatico, esercitando una funzione di “bilanciatore d’oltreoceano” là dove lo scontro tra le potenze minaccia ciclicamente di inasprirsi.

L’individuazione di una linea di frattura tra vecchio e nuovo mondo è rilevante tanto per l’inclusione nel primo del Regno Unito, quanto per l’ipotesi – considerata tutt’altro che remota – di un’alleanza fra Giappone, Germania, Italia e URSS, accreditata dalle intenzioni di Stalin di adoperarsi per un armistizio con i tedeschi dopo la battaglia di Stalingrado e da precedenti sintomatici, come gli accordi Molotov – Ribbentrop e il patto di non aggressione nippo-sovietico. 

La promozione da parte delle due superpotenze dell’indipendenza delle colonie dagli imperi europei dopo il 1945 viene interpretata dall’autore come politica finalizzata a sostituirvi una forma più sofisticata di dominio, rivolta a Stati formalmente liberi ma pesantemente dipendenti sotto l’aspetto economico.

In tale ottica, la rievocazione di alcuni passaggi storici cruciali – dalle caratteristiche della dottrina Wilson alla necessità di dominare i mercati europei manifestatasi fin dalla crisi del 1929, dall’ostinazione per la resa incondizionata delle potenze dell’Asse all’esigenza di legare a sé il processo di ricostruzione post-bellico attraverso il piano Marshall e la divisione in due dell’Europa – costituisce la cornice all’interno della quale gli Stati Uniti hanno perseguito prima l’obiettivo di distruggere definitivamente la supremazia di quest’ultima e poi quello di integrarla nel sistema di mercato capitalistico, in uno stato di subalternità lampante anche dal punto di vista militare. 

E’ significativo ricordare come, smentendo le comuni giustificazioni ideologiche utilizzate per svelare il significato delle guerre combattute nel XX secolo dagli USA in Corea e Vietnam, Henry Kissinger abbia fatto riferimento proprio a ragioni geopolitiche all’interno del più generale timore che il Giappone potesse legarsi politicamente all’URSS, scivolando nelle sabbie mobili preconizzate dalla “teoria del domino”.  

Ultima, non certo in ordine di importanza, è la dimensione culturale del primato della talassocrazia, fondata su un concetto problematico come quello di “occidente”, ince rto sotto il profilo geografico, strumentale ai progetti di inglobamento del Mediterraneo e alla stabilizzazione di rapporti di forza consolidatisi dagli albori della guerra fredda, basato sull’accettazione acritica dell’americanismo come destino da parte degli europei.

La forza dello Yen e dell’economia del

La concorrenza cinese

Se dopo il crollo del comunismo l’allargamento della Nato a est ha indubbiamente svolto la funzione di devitalizzare i meccanismi di funzionamento dell’UE, la capacità degli Stati Uniti di ergersi a unico paese egemone regionale e di ostacolare altri attori intenzionati a fare altrettanto ha trovato ulteriore conferma nella rappresentazione dei “tre mediterranei” individuata da Yves Lacoste: quello “americano”, il cortile di casa avamposto dell’espansionismo nell’Atlantico e nel Pacifico; quello “europeo”, agevolato dall’appiattimento delle oligarchie continentali e dalla penetrazione della politica del divide et impera nelle sue coste meridionali; quello “asiatico”, dove in passato gli Stati Uniti si sono imposti a spese del Giappone e oggi devono fronteggiare la concorrenza della Cina. In quest’ultimo caso la collaborazione con paesi di second’ordine dell’area (poco disposti a finire nell’orbita d’influenza di Pechino) si configura come tentativo di risposta alle rotte della nuova Via della Seta, segnale rilevante non solo di apertura ai capitali e al commercio internazionale ma anche di un radicale cambiamento di prospettiva riguardo all’attenzione dedicata all’importanza del mare.

Conclusioni

Il saggio Talassocrazia di Ghisetti per Anteo

Non sempre scorrevole sotto l’aspetto stilistico, il lavoro di Ghisetti è impreziosito dall’analisi di documenti strategici anglo-statunitensi redatti nel biennio 2020-21, che prefigurano una sfida alla spinta d’integrazione e cooperazione continentale tra Russia, Cina e (sullo sfondo) l’Iran e l’espresso rafforzamento delle forze militari ucraine, come naturali “prolungamenti” di un processo di destabilizzazione avviato alla fine della guerra fredda nello spazio euroasiatico e nel Caucaso, “il cuore della terra” potenzialmente in grado di minacciare gli equilibri esistenti.

Accusata di determinismo e talvolta di avallare addirittura “pulsioni” autoritarie, la geopolitica appare nell’era della globalizzazione più verosimilmente una disciplina – come anche sostenuto dall’autore – in grado di fornire apprezzabili strumenti di comprensione e previsione delle azioni degli attori politici, in parte ancora condizionate dall’influsso dei classici.   

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Andrea Scarano

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