Focus (di M.Lavezzo). Il mandato per Putin: la corte penale internazionale ovvero le disavventure della virtù

Un approfondimento sulla competenza della Corte Penale Internazionale riguardo al “caso Zar” e il profilo del tribunale dell'Aja

L’annuncio del mandato d’arresto per Putin sui social de La7

La Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale ha spiccato lo scorso 17 marzo un mandato d’arresto nei confronti del Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, e della sua connazionale Maria Lvova-Belova, Commissaria per i diritti dei bambini, per il crimine di guerra di deportazione illegale di minori, che sarebbe stato commesso in Ucraina a partire dal 24 febbraio dello scorso anno.

Uno dei tre giudici della Camera Preliminare investita della decisione è stato Rosario Salvatore Aitala, magistrato catanese già consigliere dell’ex Presidente del Senato Pietro Grasso. Ma è dei due massimi esponenti della Corte che vorremmo qui interessarci.

Intanto, la loro nazionalità: il Presidente della CPI, Piotr Hofmanski, è polacco, mentre il Procuratore Capo, Karim Ahmad Khan, britannico: cittadini, dunque, dei due Paesi europei più convintamente impegnati nel sostegno all’Ucraina, anche a costo di trascinare la NATO in un confronto militare diretto con Mosca. Londra, come sappiamo, a causa dell’atavico spirito antirusso dell’ex Impero Britannico, oltre che del suo (autoassegnato) compito di principale garante degli interessi statunitensi in Europa. Varsavia, per l’altrettanto atavica – e, certo, storicamente non ingiustificata – diffidenza nei confronti della Russia; ma anche per il forte spirito nazionalista e militarista che ha da sempre animato i suoi leader, dal Maresciallo Pilsudski fino ai gemelli Kaczynski. 

Già questa circostanza, se traslata in un ordinamento giuridico nazionale, darebbe adito a molti dubbi riguardo all’operato presente e futuro di tali magistrati, che non sembrano riassumere in sé le necessarie caratteristiche di “terzietà” e ai quali, quindi, dovrebbe essere legittimamente richiesto di astenersi dal giudizio. Ma, lo sappiamo, il diritto internazionale si muove a un passo molto diverso da quelli nazionali e, soprattutto, con quell’indeterminatezza che rende possibile utilizzarne i dettami à la carte. 

Ma veniamo più specificamente alla figura dell’avvocato britannico Karim Khan, la cui nomina a Procuratore Capo nel 2021 fu osteggiata da vari Stati-parte della Corte, soprattutto africani, per asserita “indegnità morale” dovuta alla sua attività di difesa di alcuni esponenti politici accusati proprio di crimini di guerra, tanto da aver luogo con una maggioranza ben lontana dall’unanimità (72 voti favorevoli su 123). 

Karim Khan è un tipico esponente della nuova aristocrazia anglo-asiatica, educata nelle università britanniche più prestigiose e per lo più legata al Partito Conservatore, di cui fa parte, come noto, anche l’attuale premier Rishi Sunak. Egli, commentando la decisione della Camera Preliminare, ha svolto considerazioni che poco sembrano avere a che fare con la sostanza delle accuse da lui sostenute: ha infatti detto che Putin sarà solo uno degli “intoccabili” che finiranno di fronte a un tribunale internazionale, al pari dei gerarchi nazisti, dell’ex leader jugoslavo Slobodan Milosevic e dell’ex Presidente della Liberia Charles Taylor (fra l’altro da lui stesso a suo tempo difeso). Dimenticando con ciò che le persone citate sono state a suo tempo inquisite da tribunali ad hoc e non dalla CPI, che in oltre venti anni di attività ha prodotto pochissime sentenze e tutte nei confronti di cittadini del Terzo Mondo, tanto da attirarsi frequenti accuse di “neocolonialismo”.

Concentriamoci ora sull’effettiva competenza della Corte Penale Internazionale riguardo al “caso Putin”. Come noto, la giurisdizione della Corte si esercita esclusivamente ratione loci (crimini commessi sul territorio di uno Stato-parte) o ratione personarum (crimini commessi da un cittadino di uno Stato-parte): né l’Ucraina né la Federazione Russa hanno però ratificato lo Statuto di Roma e quindi non ne sono parte. Lo Statuto stesso, all’art. 12 comma 3, prevede una clausola eccezionale che consente di superare tali criteri: anche uno Stato non parte può richiedere alla Corte di investigare ed eventualmente giudicare crimini internazionali commessi sul proprio territorio, a mezzo di una dichiarazione ad hoc inoltrata alla Cancelleria della Corte stessa. L’Ucraina si è avvalsa proprio di tale clausola per accettare, con due successive dichiarazioni del 2014 e 2015 (rispettivamente dopo i disordini di “Euromaidan” e l’occupazione russa della Crimea) la giurisdizione penale della Corte circa ipotesi di fattispecie criminali internazionali commesse sul proprio territorio a partire dal 21 novembre 2013. 

Lo Statuto, peraltro, non sembra concedere allo Stato dichiarante la possibilità di limitare la giurisdizione della Corte riguardo agli individui che commettono i crimini. L’art.12 comma 3 recita infatti: “Se è necessaria, a norma delle disposizioni del paragrafo 2, l’accettazione di uno Stato non parte del presente Statuto, tale Stato può, con dichiarazione depositata in Cancelleria, accettare la competenza della Corte sul crimine di cui trattasi. Lo Stato accettante coopera con la Corte senza ritardo e senza eccezioni, in conformità al Capitolo IX”. Secondo la lettera dello Statuto, ma soprattutto secondo il suo spirito, non si vede dunque come uno Stato non parte che accetti la giurisdizione della Corte possa poi limitarne in qualsiasi modo l’attività.

Eppure la Dichiarazione del 4 febbraio 2015 del Parlamento ucraino limita esplicitamente la competenza della CPI ai “crimes against humanity and war crimes committed by senior officials of the Russian Federation and leaders of terrorist organizations DNR and LNR”, intendendosi con tali acronimi le due autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk.

A parte la definizione di tali entità come “organizzazioni terroristiche”, forse rilevante per l’ordinamento interno ucraino ma certo non per la CPI, desta dunque molte perplessità la stessa accettazione da parte di quest’ultima della dichiarazione ucraina: come potrebbe infatti un foro internazionale indipendente, una volta che la sua competenza sia stata riconosciuta, indagare e perseguire soltanto i crimini commessi da una delle parti in conflitto? Soprattutto, aggiungiamo, se consideriamo che a quelli sicuramente perpetrati da parte russa si sono altrettanto certamente aggiunti quelli commessi fin dal 2014 dai militari ucraini nelle due Repubbliche indipendentiste. Crimini, questi ultimi, probabilmente non molto diversi da quelli delle milizie jugoslave contro la popolazione del Kosovo, che motivarono i bombardamenti NATO del 1999 e la successiva consegna dell’ormai ex Presidente Milosevic al Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia.

Un’applicazione, dunque, quella proposta da Kiev e accettata dalla Corte, selettiva e pienamente rispondente a quelle finalità politiche antirusse ormai comuni all’intero mondo euro-atlantico. Un atteggiamento selettivo non troppo dissimile da quello, proverbiale, degli Stati Uniti, la cui storica contrarietà allo Statuto di Roma (con tanto di ritiro della firma a suo tempo apposta dal delegato statunitense) fu causata dal timore che un organo giurisdizionale autonomo potesse avere autorità nei confronti del personale militare statunitense impegnato all’estero e, perché no, dei suoi “Comandanti in capo”, fino ad allora (e tuttora) protetti, anche con specifici accordi bilaterali, da ogni possibile persecuzione penale non nazionale per le proprie attività. Senza che Washington abbia però rinunciato, nel caso di Putin, a plaudire all’iniziativa di una Corte che non riconosce.

Quanto fin qui esposto non sembra dunque militare in favore della credibilità della Corte, che è sembrata nell’occasione più un’esecutrice di dettami politici che quell’alto e virtuoso foro giurisdizionale che avrebbe dovuto essere negli intendimenti dei suoi fondatori. D’altra parte, data l’estrema difficoltà di eseguire in ogni caso l’arresto di Putin (del tutto impensabile, poi, qualora la Russia dovesse prevalere sul campo), il principale obiettivo del Procuratore Karim Khan, oltre a quello di raggiungere la notorietà internazionale come primo magistrato ad incriminare un Capo dello Stato in carica, sembra essere stato quello di fare del leader russo un “paria internazionale”. Riducendo ulteriormente, va da sé, le già scarse possibilità di pervenire in Ucraina ad un accordo di pace o, quantomeno, ad una tregua.

Appaiono a questo punto evidenti quelle “disavventure della virtù” attribuibili alla Corte Penale Internazionale, nata per promuovere universalmente, al massimo livello,  il diritto internazionale umanitario e ridotta oggi, invece, a semplice esecutrice di finalità politiche di parte. 

Citando l’opera omonima del Marchese de Sade, possiamo dunque a buon diritto così definirla: “Questo essere esecrabile, nato dalla paura degli uni, dalla furbizia degli altri, e dall’ignoranza di tutti, non è che una rivoltante banalità che non merita da parte nostra un solo istante di fede, né un solo istante di rispetto”.

Massimo Lavezzo

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