Utero in affitto e il passaggio dal Nomos della Natura a quello della Tecnica

Sono questioni che non riguardano solo i cattolici o i soli credenti, ma che coinvolgono la cultura, l’antropologia, i legami sociali, l’idea di dignità della persona

Utero in affitto

Riflessioni personali sulla manifestazione di Milano”: le figure archetipiche di “padre” e “madre” sostituite da “committente 1” e “committente 2” segnano il passaggio dal nomos della Natura a quello della Tecnica.

C’é una linea del Piave che l’ideologia del postumano intende sfondare: introdurre il principio che il rapporto di genitorialità, grazie alla Tecnica e alle possibilità economiche di chi vi ricorre, non presuppone genitori di sesso diverso, nè un legame genetico, essendo sufficiente l’intenzione di essere il “committente di un progetto di genitorialità”.

Non sono in ballo, dunque, le istanze di riconoscimento di applicazione di misure di solidarietà sociale tra persone dello stesso sesso, ma le fondamenta stesse dello statuto antropologico naturale: in buona sostanza si mira a accogliere nel nostro Ordinamento, in via indiretta o “di principio”, l’istituto della filiazione omogenitoriale attuata attraverso la fecondazione eterologa e/o la maternità surrogata e quindi a fondare uno statuto antropologico incentrato:

1) sulla “orfanizzazione intenzionale” del nascituro, al quale viene precluso -recidendolo- ogni legame con uno dei due genitori biologici e ciò, per quanto riguarda la maternità surrogata, in palese violazione del Sesto Principio della Dichiarazione Universale dei Diritti del fanciullo (secondo il quale “salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non può essere separato dalla madre”) e sulla negazione del diritto del nascituro a conoscere l’identità di entrambi i genitori biologici e a mantenere un rapporto affettivo con loro;

2) sulla sostituzione del legame socioaffettivo tra genitori con la regolamentazione contrattuale della intera procedura di PMA e sulla deresponsabilizzazione genitoriale del Donatore/Surrogante;

3) sulla sostituzione della sessualità riproduttiva con procedimenti standardizzati di produzione del vivente (peraltro non legati alla condizione di sterilità assoluta del singolo componente della coppia, ma alla semplice volontà di avvalersi di detta procedura da parte di coppie dello stesso sesso).

4) sulla mercificazione del vivente propria di dette procedure (utero in affitto, cessione di gameti). Queste istanze denotano dunque un’impostazione fondata, in ultima analisi, sulla rivendicazione di diritti che si basano sulla “cosificazione” (rectius: reificazione) dell’uomo, sottoponendo il vivente alla logica delle leggi di Mercato: come sopra accennato, infatti, l’intero sistema procreativo artificiale si fonda su un atto dispositivo del nascituro in cui il legame sociale e il rapporto sessuale generativo tra un uomo e una donna sono sostituiti da una transazione di natura privatistica che ha ad oggetto la produzione di un essere umano.

Come annotava già Ernst Junger negli anni 50 del secolo scorso:

“Emblema di un percorso verso un abisso sconosciuto, la tecnica viola, mediante la teorizzazione e la possibile applicazione del processo di fecondazione artificiale, persino il tabù del diritto ad avere un padre, ponendosi così al muro del tempo, dove spira il vento inquietante delle svolte epocali. E’ il principio stesso che anima questo nuovo tipo di riproduzione e non la sua estensione a essere più gravido di conseguenze, per il nostro destino, di quanto non lo siano state due guerre mondiali”.

 

Sono questioni che non riguardano solo i cattolici o i soli credenti, ma che coinvolgono la cultura, l’antropologia, i legami sociali, l’idea di dignità della persona, elementi prepolitici e prereligiosi, su cui si basa l’idea di comunità e, in ultima analisi, l’idea stessa di democrazia fondata sul consenso e la libertà di uomini e donne liberi, liberi anche di amare, ma non di ridurre a prodotto merceologico un bambino.

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Lorenzo Borrè

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