“La diplomazia oscura” durante la guerra fredda

La contrapposizione tra i due blocchi fu caratterizzata da operazioni a bassa intensità militare in cui i servizi segreti - compresi quelli dei paesi satellite - seppero ritagliarsi un ruolo

Il saggio di Falanga per Carocci – foto tratta da Darkside – storia segreta d’Italia

Durante la guerra fredda la contrapposizione tra i due blocchi fu caratterizzata da operazioni a bassa intensità militare in cui i servizi segreti – compresi quelli dei paesi satellite – seppero ritagliarsi un ruolo. Lungo quali direttrici azioni coperte finirono talvolta per intrecciarsi con quelle di organizzazioni terroristiche?

Pubblicato da Carocci editore, “La diplomazia oscura – Servizi segreti e terrorismo nella guerra fredda” è un saggio dello studioso Gianluca Falanga, cultore di una materia esposta alle “incursioni” di teorie cospirative, ma oggetto di analisi scientifiche a partire dalla caduta del Muro di Berlino e dall’apertura degli archivi che consentirono l’acquisizione di una significativa mole di documentazione.

La lotta armata in Europa: condizionamento sovietico e oltranzismo atlantico

La conferma dell’attendibilità di Jan Sejna, generale cecoslovacco divenuto consulente della CIA, ha rafforzato ulteriormente la convinzione che il regime sovietico concepì la “coesistenza pacifica” e il disarmo in funzione tattica e strumentale, perseguì la frammentazione sociale e politica in Europa, il sabotaggio del fronte atlantico e promosse la diffusione del comunismo quale guida della lotta dei movimenti di liberazione del Terzo mondo, alimentando scontri di classe localizzati nelle metropoli del Vecchio continente.  

Protezioni e doppiezza politica facilitarono, nell’autonomia dei rispettivi raggi d’azione, la collaborazione e lo scambio di informazioni tra le strutture dell’antiterrorismo dei servizi dell’est, le organizzazioni eversive palestinesi (talvolta non esenti da collegamenti con gruppi neo-nazisti) e tedesche, che si erano rapidamente radicate a partire dalla fine degli anni sessanta. Il dispiegamento di formazioni paramilitari occulte in tempo di pace rispose alla necessità di introdurre in territorio nemico agenti speciali che provocassero condizioni di guerra civile: l’infiltrazione della Stasi nell’area extra-parlamentare, nel movimento studentesco e nei ranghi della polizia della Germania ovest esacerbò uno stato di tensione simile a quello pianificato nella “declinazione” tedesco-orientale dei documenti strategici di Mosca.  

Di fronte alla crescente minaccia della RAF, utilizzata dal regime di Honecker amplificando il discredito che l’esposizione mediatica delle procedure giudiziarie ai danni dei militanti arrestati attirava sulle istituzioni di Bonn e accogliendo fuoriusciti, l’Agenzia di sicurezza interna della Repubblica federale operò di fatto come una struttura ausiliaria degli omologhi statunitense, francese e britannico. Si mimetizzò nei gruppi per pilotarne la formazione e la preparazione (anche reclutando estremisti nelle carceri), non rispondendo ad alcun organo di controllo federale né alla legge; allo stesso tempo la polizia intraprese una guerra psicologica caratterizzata dalla diffusione di notizie false, attività di disturbo e sabotaggio miranti a squalificare i terroristi alla stregua di criminali comuni.

Sul versante opposto l’amministrazione di Washington – attiva, almeno in uno stadio iniziale, nel finanziamento dell’estremismo studentesco – perseguì la politica della distensione attraverso il paradosso dell’irrigidimento della disciplina interna al blocco, scoraggiando nel caso dell’Italia gli esecutivi riformisti a vantaggio di formule di governo neo-centriste.

Vengono smentiti il ruolo statunitense orientato alla forzatura eversiva del sistema politico durante la strategia della tensione (avvalorando piuttosto la tesi di una “stabilizzazione concertata” con i partners comunitari) e la matrice ideologica neofascista dell’Aginter Press (la centrale impegnata nella lotta alla sovversione attraverso il reclutamento di mercenari non direttamente riconducibili ad entità governative), individuandone piuttosto i tratti salienti nell’elemento cattolico-tradizionalista.

Il terrorismo rosso in Italia

Sulla base degli studi presentati in Commissione parlamentare stragi dagli onorevoli Fragalà e Mantica che retrodatano l’incubazione della lotta armata in Italia prima del biennio ‘68-’69, Falanga identifica nei collegamenti tra Soccorso rosso, anarchici, elementi filo-castristi e maoisti, studenti vicini al reducismo partigiano e apparato riservato del PCI una rete ramificata che garantì  assistenza legale ai prigionieri politici comunisti e ai rivoluzionari sparsi nel mondo e supporto finanziario, logistico e militare sotterraneo, grazie agli aiuti ricevuti dall’URSS e all’attività di emissari rimasti a lungo nell’ombra.

I sovietici inviarono agenti provocatori incaricati di svolgere una campagna di disinformazione per screditare la direzione moderata del PCI e sostennero sia l’aggregazione della nuova sinistra rivoluzionaria sia quella del fronte di lotta internazionale contro i sistemi capitalisti: il Piano strategico di lungo termine previde, attraverso quest’ultima, anche “l’attivazione di forze neofasciste”.

Le prime strutture operative dell’antiterrorismo – unità speciali organizzate fuori dalle gerarchie con il beneplacito del Ministero dell’Interno, come i nuclei dei carabinieri del generale Dalla Chiesa e l’Ispettorato Generale Antiterrorismo di Santillo – furono smantellate in concomitanza con il riordino generale dei servizi che, all’entrata in vigore della riforma, funzionarono solo in via teorica: in tal modo il sequestro Moro venne gestito senza un efficiente apparato investigativo e di intelligence.

Vulnerabili in virtù del proprio radicamento nel tessuto sociale e di una rete vasta e trasversale di fiancheggiatori e simpatizzanti, le Brigate rosse vennero infiltrate ai livelli bassi ed intermedi. Peraltro, informazioni trasmesse da Beirut dal colonnello Giovannone – interlocutore abituale del dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) George Habash, pronto nel febbraio 1978 ad attuare impegni presi con il SISMI miranti a escludere l’Italia da piani terroristici – avvertirono che esse si stavano adoperando per riallacciare rapporti ufficiali di collaborazione e assistenza con i palestinesi interrotti alcuni anni prima. Armi ed esplosivi provenienti dal Libano vennero effettivamente messi in sicurezza nella penisola, anche se gli accordi non furono resi totalmente operativi: rimase, per esempio, sulla carta il supporto dei brigatisti rossi ad attentati da compiere contro obiettivi israeliani nella penisola.

Un appunto olografo di Giovanni Senzani dimostra che gli abboccamenti proseguirono anche dopo la cattura di Mario Moretti dell’aprile 1981, anche se il nuovo vertice non nascose lo scetticismo riguardo all’intensificazione dei contatti con altre formazioni rivoluzionarie europee.

La radicalizzazione palestinese 

Arafat svolse un doppio ruolo all’interno della frastagliata galassia della resistenza palestinese: da un lato diede l’ordine ai terroristi di Settembre nero di uccidere i diplomatici (compreso quello statunitense) sequestrati nella residenza dell’ambasciatore saudita a Karthoum nel 1973; dall’altro avviò negoziati con i paesi europei per ottenere il riconoscimento internazionale dell’OLP, cercando di svincolarsi dai sovietici che gli proponevano politiche di “aggressione controllata”. 

L’accordo segreto di non belligeranza con gli Stati Uniti, intenzionati a garantire la protezione dei propri cittadini in cambio di sostegno politico e finanziario, rientrò nella svolta moderata che provocò la radicalizzazione delle opposizioni interne aderenti al cosiddetto Fronte del rifiuto.

Nel contesto del coinvolgimento crescente della Germania est nel processo di stabilizzazione dei regimi arabi, la Stasi e Wadi Haddad – membro del FPLP in grado di controllare il traffico d’armi con l’Europa, legato a doppio filo al KGB e sostenuto da paesi filo-socialisti quali Libia, Iraq e Algeria, a propria volta determinati ad impedire un’eccessiva autonomia dell’OLP – organizzarono rispettivamente l’apparato di sicurezza e le strutture di addestramento per terroristi del regime comunista dello Yemen del sud. 

Nel frattempo la penetrazione della guerriglia fu agevolata dall’atteggiamento remissivo del governo della Repubblica federale tedesca e dal connubio tra la lotta armata dei commandos e i terroristi della RAF, che attivarono cifrature delle comunicazioni e tecniche di controspionaggio imitando i metodi dei servizi. Di fronte alla stipula degli accordi di pace del 1979 tra Egitto e Israele, la Divisione antiterrorismo guidata all’est da Mielke strinse un patto con i servizi di intelligence dell’OLP per controllarne l’operato a cavallo dei confini con la Germania ovest, tentando di escludere la dittatura da complicità dirette: l’intercettazione di piani e propositi terroristici e la possibilità di decidere se ostacolarli o meno sulla base del principio del cui bono (cioè a seconda della convenienza), furono possibili al prezzo di prestare inesorabilmente il fianco agli attacchi entro i confini nazionali.

Evoluzione del terrorismo negli anni Ottanta

Nella cornice della crisi degli euromissili e della minaccia nucleare crescente, dello sgretolamento del predominio dell’URSS in Medio Oriente e della conseguente fine del processo di distensione, mercenari rivoluzionari e professionisti del terrore – come il venezuelano Carlos lo Sciacallo e Abu Nidal, precedentemente espulso dall’OLP per aspri contrasti con Arafat – agirono più o meno indisturbati. Pur senza significativi sviluppi a livello giudiziario, alcuni indizi hanno avvalorato l’ipotesi che dietro gli attacchi di Monaco, Bologna e Parigi si celasse una regia palestinese, silenziata da un comune schema depistante a protezione degli autori delle stragi.

Nel caso della Francia il riconoscimento dell’asilo politico a imputati, condannati o ricercati per atti violenti d’ispirazione politica purché non diretti contro lo Stato (noto come dottrina Mitterand) si tradusse sostanzialmente nell’idea che il terrorismo fosse una proiezione del conflitto mediorientale e non una minaccia per la sicurezza; significativo, in tal senso, fu il patto di non aggressione che assicurò al movimento di Abu Nidal libertà di movimento in cambio della sospensione degli attentati sul suolo transalpino.

La decisione dell’amministrazione Reagan di bombardare la Libia venne accelerata da un attacco che si verificò nell’aprile 1986 in una discoteca di Berlino ovest, provocando la morte di due militari americani. Sebbene fossero a conoscenza da tempo della preparazione dell’attentato, i servizi della Repubblica Democratica Tedesca non ricevettero l’ordine di intervenire; note anche alla CIA, le prove del coinvolgimento di dirigenti del servizio segreto libico, che utilizzarono come avamposto l’ambasciata di Berlino est, non furono rese pubbliche.

Nonostante qualche passaggio un po’ prolisso e sullo sfondo di un dilemma che non riguardò solo la Stasi – ovverosia, fino a che punto il sostegno alle lotte di liberazione dal “neocolonialismo” imperialista giustificò il favoreggiamento di criminali sanguinari – il lavoro di Falanga evidenzia in modo egregio condotte poco conosciute di paesi (democratici e non) dei versanti opposti della cortina di ferro, facendo emergere il doppio registro di un atteggiamento risoluto verso i fenomeni di terrorismo interno e subdolo nel ricorrere alla diplomazia segreta e parallela per difendersi da quello di matrice internazionale.

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Andrea Scarano

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