Il “lodo Moro” e il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo

Valentine Lomellini è autrice della monografia “Il lodo Moro - Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986” edita dalla casa editrice Laterza

Il “lodo Moro”

Nell’accezione prevalente il “lodo Moro” consiste nell’accordo non scritto, voluto dallo statista democristiano e negoziato dal colonnello Giovannone – capocentro del Sismi a Beirut – con la resistenza del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), finalizzato a garantire la libera circolazione di armi e guerriglieri in cambio della garanzia che l’Italia rimanesse al sicuro da attentati di matrice terroristica.

Inesistente secondo recenti sentenze della magistratura, la sua paternità – a lungo attribuita unicamente al politico pugliese sulla base delle allusioni contenute nelle lettere scritte dalla prigione delle Brigate Rosse – sarebbe stata in realtà condivisa lungo un arco temporale molto più dilatato ai più alti livelli politici, militari e giudiziari.

E’ quanto sostiene Valentine Lomellini – autrice della monografia “Il lodo Moro – Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986” edita nel 2022 dalla casa editrice Laterza – che, inquadrando il fenomeno in un contesto più ampio, ammonisce il lettore dalla tentazione di un approccio alla materia eccessivamente “italo-centrico”, ridimensionando – nell’analisi delle vicende che si concretizzarono nell’internazionalizzazione della lotta e nell’esportazione del terrorismo palestinese nel continente europeo sin dalla fine degli anni Sessanta – la presunta eccezionalità del nostro caso nazionale.

I paesi europei di fronte al terrorismo

La minuziosa ricostruzione storica di alcuni avvenimenti (strage di Monaco ai giochi olimpici del ‘72, attentati alle ambasciate saudite nel Sudan e in Francia, attacco a un treno passeggeri alla frontiera austro-cecoslovacca finalizzato a disinnescare la politica di apertura all’emigrazione ebraica da parte dell’esecutivo di Vienna) avvenuti in parallelo all’escalation del conflitto tra Israele e l’Olp è accompagnata dal focus sulle modalità di risposta dei governi europei, a partire dai tentativi di istituire una rete operativa informale (Club di Berna) di scambio di notizie e informazioni.

Nel frattempo nuovi attori iniziarono ad affiancare la resistenza palestinese e un insieme eterogeneo di movimenti estremisti e mercenari: la Libia, l’Iraq e più tardi la Siria garantirono, a seconda dei casi, supporto economico-finanziario, logistico, addestramento sul campo, diritto d’asilo e documenti falsi. La fondata convinzione, a lungo attentamente tenuta nascosta, del loro coinvolgimento negli attentati, l’arma petrolifera intesa come strumento di pressione politica in mano ai paesi arabi in un contesto di grave crisi economica, l’accettazione da parte di Roma e di Parigi dell’intervento israeliano mirante all’attuazione di omicidi selettivi dei terroristi sui propri territori, la consapevolezza (nel caso italiano confermata dalle informazioni raccolte dal Sid) della fragilità della leadership di Arafat, indebolito nel proposito di ritagliarsi un ruolo nel processo di pace in Medio Oriente, influirono in modo determinante sulla condotta di alcuni governi del Vecchio Continente (Svizzera, Francia, Austria, probabilmente Repubblica Federale Tedesca), che strinsero compromessi con la guerriglia nel nome della ragion di Stato.

Il lodo come politica dello Stato italiano

Il processo di definizione del lodo come politica di contenimento del terrorismo internazionale conobbe un’accelerazione dopo l’arresto, avvenuto durante un’operazione congiunta del Sid e del Mossad ad Ostia nel settembre 1973, di cinque terroristi arabi trovati in possesso di lanciamissili di fabbricazione sovietica che dovevano servire all’abbattimento un aereo civile israeliano in partenza da Fiumicino.

Già nota come “equidistanza con comprensione verso gli arabi”, la posizione di Moro trovò una sponda nei negoziati italo-libici e nelle missioni di funzionari dei servizi finalizzate a spegnere le minacce di ritorsione di Settembre nero: l’interlocuzione fu verosimilmente avviata da Nemer Hammad, rappresentante di Fatah in Italia. Secondo testimonianze poi confermate da Tanassi (all’epoca dei fatti Ministro della Difesa), la decisione di concedere senza una ragione apparente la libertà provvisoria a due dei cinque guerriglieri arrestati (poi accompagnati in Libia da ufficiali del SID) fu presa dal presidente del Consiglio Rumor e dallo stesso Ministro degli Esteri Moro. Le autorità italiane erano, peraltro, al corrente dei collegamenti di uno dei detenuti con guerriglieri in grado di controllare frange di Fatah avversarie di Arafat.

Ben presto rimossa dall’opinione pubblica, la successiva strage dell’aeroporto di Fiumicino – due diversi commandos attaccarono tre aeromobili provocando trenta vittime – confermò nelle modalità quello che l’autrice definisce un”archetipo operativo”: coinvolgimento degli estremisti (nella fattispecie membri del Fplp sostenitori del “fronte del rifiuto”, contrario alla linea moderata), individuazione dell’obiettivo da colpire con un atto di pirateria aerea, fase negoziale, coinvolgimento libico e iracheno, fuga dei terroristi e loro consegna alle autorità dei paesi protettori.

Sullo sfondo di pesanti polemiche parlamentari – il Movimento Sociale italiano chiese a gran voce le dimissioni del Ministro dell’Interno Taviani, puntando l’indice contro le evidenti carenze delle misure di sicurezza negli aeroporti – la scelta di rimandare lo svolgimento del processo a carico dei tre terroristi sotto custodia giudiziaria per i fatti di Ostia non fu solo il frutto di un disegno moroteo. Se in una prima fase il lodo, aperto alla partecipazione di altri esponenti democristiani e del partito socialista, fu gestito informalmente dai servizi su iniziativa dei Ministeri degli Esteri, degli Interni e di Grazia e Giustizia, a partire dal 1974 la Farnesina diresse le operazioni con la compiacenza del Quirinale e di alcuni magistrati.

Malgrado l’inibizione ad accedere alla consultazione integrale degli atti, Lomellini ricostruisce tramite verifiche incrociate la vicenda della concessione del provvedimento di grazia verosimilmente emesso dal Presidente della Repubblica Leone nell’aprile 1976, in forza del quale tre terroristi processati per direttissima e condannati con l’imputazione di “porto e detenzione abusiva di armi da guerra” furono liberati con il tacito assenso del sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale penale di Roma. In cambio la Libia, alla quale era stato riconosciuto il ruolo di negoziatore delle “agevolazioni giudiziarie” a favore dei guerriglieri, si impegnò per la liberazione di due italiani finiti in carcere a Tripoli.

I rapporti italo-libici e il dilemma della sicurezza

L’ampio spazio dedicato alle relazioni tra l’Italia e il regime del colonnello Gheddafi evidenzia, del resto, l’importanza per l’esecutivo di Roma di fronteggiare – una volta acquisita consapevolezza dell’insufficienza della cooperazione europea e occidentale – il dilemma della sicurezza, ovverosia di scegliere se tutelare quella economica di fronte agli shock petroliferi, quella dello Stato nella morsa dell’instabilità geopolitica oppure quella dei cittadini minacciati dal terrorismo arabo-palestinese. Gli accordi stipulati nel 1974 e nel 1979 sancirono per l’Italia un incremento delle esportazioni e degli approvvigionamenti petroliferi e per la Libia quello delle forniture militari.

La concretizzazione di un rapporto privilegiato, gradualmente costruito a partire dal ruolo svolto dai servizi italiani nell’impedire nel paese nordafricano due tentativi di golpe agli albori del decennio, era significativa perché – oltre ad azzerare gli attentati nella penisola – coronava l’aspirazione di Moro ad irrobustire la nostra politica nello scacchiere mediterraneo, silenziando al momento opportuno le scomode campagne di stampa (già oggetto di lamentele del Primo ministro Jallud con l’ambasciatore italiano) che tiravano pesantemente in ballo il regime di Gheddafi per la strage di Fiumicino. In seguito, le forme di connivenza proseguirono in occasione delle campagne degli assassini politici mirati a danno degli oppositori, consumati da sicari del colonnello in Italia.

Il lodo dopo la morte di Moro

La mancanza di un interlocutore unitario da parte palestinese minò ripetutamente l’efficacia degli accordi, soggetti a continue ridefinizioni. Se la vicenda dei missili di Ortona accelerò l’intesa tra l’Italia e il Fplp menzionata all’inizio, la prosecuzione del lodo è confermata da alcuni casi emblematici verificatisi negli anni ottanta: ad esempio quello del libico Said Rachid, arrestato in Francia nel 1983 per l’omicidio – commesso tre anni prima a Milano – di un confidente dei servizi italiani. Documenti archivistici francesi proverebbero che la scelta del Ministro degli Esteri Andreotti di presentare la richiesta di estradizione oltre i termini previsti sia stata deliberata e non frutto della proverbiale disorganizzazione italiana.

Ancor più eclatanti furono, in rapida successione negli ultimi mesi del 1985, le vicende del dirottamento dell’Achille Lauro, della crisi di Sigonella e della strage di Fiumicino. La necessità di mantenere rapporti preferenziali con la Libia – non dimenticando la tutela delle migliaia di connazionali residenti in quel paese – fu perseguita a costo di provocare attriti con gli Stati Uniti.

Con i dovuti distinguo di due visioni non sempre complementari e di due temperamenti tra loro molto diversi, le linee guida adottate da Craxi e da Andreotti non potevano prescindere – oltre che dagli enormi interessi petroliferi – da una dimensione geopolitica, cioè dall’aspirazione italiana a svolgere un ruolo di cerniera nel Mediterraneo, considerati anche i timori che Gheddafi potesse finire nell’orbita di influenza sovietica. L’auto-percezione di vulnerabilità da parte italiana era, peraltro, destinata ad aumentare con l’irrompere della Siria quale “sponsor” del gruppo terrorista di Abu Nidal, acerrimo nemico dell’OLP e responsabile della nuova mattanza allo scalo romano.

Conclusioni: la storia italiana nel contesto internazionale

Il saggio analizza in profondità aspetti oscuri e controversi della recente storia repubblicana, avvalendosi dell’ausilio di numerosi riferimenti bibliografici e di documentazione d’archivio. Si può certamente convenire con l’autrice che, rispetto al comportamento riservato al terrorismo interno, la politica adottata dall’Italia verso quello internazionale fu diametralmente opposta, trovando peraltro conferma nella decisione di ratificare con nove anni di ritardo la Convenzione europea del 1977 in materia.

E’ nella secondaria opinione di chi scrive, tuttavia, che nelle conclusioni Lomellini contraddice almeno in parte quanto sostenuto nella premessa, individuando nel lodo un fenomeno in primis italiano, pur all’interno di un contesto in cui altri paesi si affidarono – evidentemente con un differente grado di intensità – alla ragion di Stato per combattere un insidioso pericolo esterno.

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Andrea Scarano

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