Cinema. La “Siccità” di Paolo Virzì, la sete di Roma (e della società)

Giuseppe Del Ninno: "Non ci salveranno quelle che furono élites e neppure i nuovi barbari delle periferie"

Paolo Virzì è uno dei registi italiani dotati di maggiore sensibilità e acume nel cogliere i mutamenti della società: già in “Ferie d’agosto” (1996) e più ancora in “Caterina va in città” (2003), ad esempio, aveva fra l’altro illustrato, utilizzando schemi e toni della commedia all’italiana, i mutamenti in atto nel mondo della destra e della sinistra, ribaltando alcuni luoghi comuni. Ad esempio, il ceto abbiente e colto, da sempre esponente della destra conservatrice e del notabilato, veniva ascritto alla sinistra, divenuta conservatrice delle proprie posizioni di potere; l’anima “popolare”, con buona pace di Marx e di Pellizza da Volpedo, s’incarnava nelle classi dei nuovi ricchi ignoranti, ma anche in quelle meno fortunate, quelle dei magri salari e delle squallide abitazioni periferiche, classi che sempre più si orientavano a destra.

 

Ora, con il suo nuovo film “Siccità”, Virzì amplia l’orizzonte fino a spingersi ad azzardi profetici e, prendendo spunto dall’attualità che questa estate ci ha regalato, fra le varie “piaghe d’Egitto”, anche la penuria d’acqua, esaspera quell’emergenza e ne mette a nudo le conseguenze sulla nostra società. Il regista pedina i suoi protagonisti – da Silvio Orlando a Monica Bellucci, da Valerio Mastandrea a Claudia Pandolfi, dal regista Gianni Di Gregorio, qui in un riuscito cameo, a Massimo Popolizio, per limitarci ai più noti – in una Roma polverosa e sitibonda (perfino il Tevere, con un mirabile effetto speciale, mostra il suo letto prosciugato sotto i bastioni di Castel S. Angelo). Alla fine, i fili di tutte le storie messe in scena si riannoderanno, per fornire un patchwork della nostra società, un po’ come accadde in “Magnolia” di Paul Thomas Anderson o in “Babel”, di Iñàrritu.

 

Qui non interessa una disamina “tecnica” del film, che merita di essere visto, anche se viene messa troppa carne al fuoco: a proposito di piaghe d’Egitto, non si parla di pandemia, ma c’è un’invasione di blatte – come ne “La peste” – portatrici di una mortale malattia del sonno; inoltre, qualche relazione fra i personaggi appare piuttosto inverosimile (si vedano la “dottoressa Pandolfi”, di successo nella professione ma fallita come moglie e madre, con il marito separato Mastandrea, scalcagnato autista di NCC ed erede diretto dei “vinti” di Verga). Non mancano poi accenni alla crisi della famiglia, specie nei rapporti genitori-figli, agli effetti deleteri della televisione sulla tenuta morale degli specialisti chiamati ad occupare ribalte a cui non sono abituati (si pensi all’epopea dei virologi, qui surrogati da un esperto in… acque), al ruolo residuale della Chiesa, con un Pontefice ripreso di spalle in una breve sequenza, mentre benedice una processione che invoca la pioggia impugnando fiaccole e salmodiando.

 

Tuttavia, l’aspetto più interessante sotto il profilo sociologico e politico sta nella rinnovata illustrazione di una sinistra al caviale, travolta dalla generalizzata crisi: lui, un efficace Tommaso Ragno, è un attore sul viale del tramonto, che s’illude di resistere al declino postando interventi sui social media, mentre ignora l’infedeltà virtuale della moglie, che riannoda via internet i rapporti con un vecchio compagno di scuola (moglie ridotta a fare la cassiera in un supermercato) e affronta tardi e superficialmente i problemi del figlio adolescente. Proprio quest’ultimo ha preso a frequentare un gruppo politico composto soprattutto da proletari: uno di questi, in particolare, gli starà vicino in alcune disavventure. In queste sequenze, il regista racconta le generosità e l’efficienza di questi dropout votati al sostegno degli sradicati che occupano case e si affollano intorno alle autocisterne che distribuiscono acqua; ma illustra anche il candido stupore del ragazzotto che entra nella casa – per lui lussuosa – dell’amico benestante. Anche se non ne vengono mostrati le insegne, viene da pensare ai gruppi di certa destra sociale e alla loro sollecitudine verso i meno fortunati, in contrasto con l’egoistico rinchiudersi in se stessi dei ceti che furono abbienti e che ora la crisi, anche sotto forma di siccità, spinge sulla via del declino. Nel film non si parla di occulti e perversi centri di potere, e tutte le “piaghe” sembrano derivare da un destino globale ineluttabile; insomma, non ci salveranno quelle che furono élites e neppure i nuovi barbari delle periferie.

 

In questa che la realtà ci prospetta come una situazione senza uscita, la finzione cinematografica ce ne offre una, ricorrendo al simbolo, come del resto accade anche in letteratura. Ricordate la finale ecpirosi che ne “Il nome della rosa” mette fine al misterioso e mortifero circuito nell’abazia dove indagano il frate Guglielmo da Baskerville e il suo giovane assistente? Nel film di Virzì questa funzione viene assolta dalla copiosa, benefica pioggia finale, che dà la speranza di portarsi via tutte le impurità sedimentate in questa nostra società. E allo spettatore non resta che dire fra sé e sé: magari fosse!

 

 

 

Giuseppe Del Ninno

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