L’intervista. L’artista Novellini: “Da Céline a Scilipoti lo schiaffo dell’arte al conformismo”

Céline«L’arte oggi ha due grandi nemici: il conformismo e le mode». Ecco, cambia il fronte, ma gli avversari sono sempre gli stessi. E se a dirlo è l’artista Donato Novellini, il ritrattista dei ‘cattivi maestri’ c’è da credergli. E’ una delle espressioni più irriverenti ed anticonformiste del panorama artistico italiano, al suo attivo ha decine e decine di opere. Dai ‘Cabaret Voltaire’ fino alla ‘Cerchiatura del Quadrato’ passando per la rassegna dei ‘cattivi’, Novellini fa arte nel nome dell’ironia, della dissacrazione mai fine a sé stessa e di un concetto tanto abusato da aver perduto, in questi anni di vorticosa turbolenza, ogni suo significato: quello della ‘parola’.

Come nasce l’idea dei Cattivi Maestri’?

«Tutto comincia dalla passione che ho sempre nutrito per la letteratura, in particolare per i pensatori sbattuti al di fuori dei circuiti ufficiali. Ernst Junger, Yukio Mishima, Julius Evola ma pure Oscar Wilde, Carmelo Bene, Ezra Pound, Gabriele d’Annunzio. A tutti loro dovevo qualcosa. E poi volete mettere la loro potenza provocatrice??».

Perché cattivi?

«Perché come ho detto sono stati accantonati, quasi sbattuti fuori dal ‘pensiero’ comune. Perciò conservano intatta la loro potenza che aumenta grazie a quell’alone di ambiguità e di ‘male’ che li circonda. E poi non dimentichiamo nemmeno che gente come Evola, ad esempio, ha lavorato gomito a gomito con l’avanguardia dadaista e che personaggi quali Ezra Pound conservano una valenza decisiva contro il mito del progresso razionale e così come tradizionalmente diffuso. Ecco, noi oggi dobbiamo sfatare il tabù del progresso razionale riappropriandoci di strumenti culturali e non che ci sono stati già indicati proprio dalle avanguardie del secolo scorso. E poi, diciamocela tutta. E’ una sfida alla cultura di oggi, un approccio problematico a quanto c’è di ‘ufficiale’ e conforme. Se i Cattivi Maestri fossero entrati nelle grazie degli ‘accademici’ probabilmente non risulterebbero così affascinanti…»

Quali devono essere le armi per combattere la guerra dell’arte contemporanea?

«Tanta ironia ed il valore provocatorio e incontrovertibile della Parola. Un approccio pop ai temi ‘sacri’ e tabù, come proprio ho fatto io per i Cattivi Maestri, è poi fondamentale. L’arte contemporanea ha finito, nel suo percorso, per estraniarsi quasi del tutto dall’idem sentire…»

Si è rinchiusa nella Torre d’Avorio? Da quali nemici deve difendersi?

«In questo mondo c’è troppo conformismo e troppa ignoranza. Quando accade ciò vuol dire che c’è qualcosa che non va…»

Forse è legato alla trasformazione delle gallerie d’arte in bazar e mercatini?

«Quando l’arte diventa mercato, finisce per seguire le mode del momento per accontentare i ‘clienti’. Per chi fa ricerca, come me e tanti altri, diventa davvero difficile. Si finisce per trovarsi chiusi in una gabbia in cui, per sopravvivere occorre seguire i vezzi della stagione e le procedure standard. E tutto diventa uguale, piatto e conforme…»

Dio è morto, Marx pure. E l’arte è in prognosi riservata?

«La speculazione è capace di assestare colpi mortali al messaggio di un artista. Prendete il caso di Banksy: il giorno prima era un portabandiera dell’underground ed il suo portato era davvero importante. Poi è entrato nei circuiti ‘giusti’ ed è finito sulle magliette e sui souvenir. Dare troppa importanza al lato economico rischia di far svanire la forma e la propulsività di ciò che si ha da dire».

Cosa accade sul panorama nazionale, invece?

«In Italia abbiamo avuto delle scuole e dei filoni importantissimi per l’arte moderna. Basta pensare solo al Futurismo. Poi è successo qualcosa che ha finito per stoppare la creatività. Una risacca verso il classicismo perché, nella nostra nazione, c’è il culto del Rinascimento e della conservazione ed armonizzazione di ciò che è stato. Certo, non sono mancati artisti in grado di arginare il processo ma alla lunga, ha vinto il ‘solito’ paragone con ciò che è stato. A discapito del presente».

Vuoi vedere che, oltre Venezia, tutta l’Italia è passatista?

«Il pubblico non riesce ad accogliere le novità prima che queste non vengano digerite e presentate dagli addetti ai lavori come universalmente accettate e riconosciute in tutto il mondo dell’arte. Poi ci sono i critici che parlano un linguaggio incomprensibile al pubblico, buono per gli iniziati di una setta chiusa a riccio. Non ci scordiamo, proprio a tal proposito, che la storia va avanti e che ogni corrente artistica è figlia del suo tempo».

I nostri anni che mostri hanno partorito?

«In realtà non c’è una visione univoca dell’arte. C’è una grossa frammentazione in tutti i campi. E questo, ad esempio, è palese nell’architettura. Ma anche sugli altri fronti. Insomma, manca uno stile in grado di sintetizzare tutto. E’ il caos: se si toglie la speculazione e mode, tutto scomparirà velocemente. E se non si riesce ad imporre una via l’arte stessa rischia di fallire il suo compito».

Da cosa occorre ripartire, allora?

«Dalla frammentazione dell’estetica. Dall’ironia, dalla potenza devastante della Parola e dal messaggio. E iniziare le prove tecniche di rinascita. Ma sarà difficile, nell’era della comunicazione eccessiva, a tutti i costi, diventa tutto molto più impegnativo».

L’ironia, già. Si sorride ma si finisce pure per pensare al Cabaret Voltaire…

«Già, si tratta di una serie di lavori ispirati e dedicati al primo quartier generale del dadaismo. Tutto è fondato sulla parola e sull’ironia. E’ la dimostrazione della potenza della Parola, di quanto essa sia capace di scatenare tanto violento quanto paradossale un devastante corto circuito».

Torniamo ai Cattivi Maestri.

«Fin dall’adolescenza ho ammirato Céline e Junger. Insieme agli altri che ho ritratto. Il mio debito di riconoscenza è diventato una base per vivere l’arte: partire da un testo e dalla sua interpretazione per offrire al mondo contemporaneo un nuovo punto di vista. Devo ammettere che altri soggetti cui ho dedicato lavori del genere mi sono stati ‘commissionati’. Nei ritratti i personaggi, in bianco e nero, e le parole, i giornali, sullo sfondo cromatico ‘dedicato’ ad ognuno di loro. Come decido il colore? Folgorazioni…»

Chi sarà il prossimo?

«Il primo è stato Ezra Pound, sto finendo il ritratto dedicato a Emile Cioran».

Provocazione per provocazione. In fondo, i Cattivi Maestri, sono tutti morti. Non c’è proprio nessuno, tra coloro che ancora calpestano questa valle di lacrime, cui dedicare un ritratto ‘maledetto’?

«Sì che c’è. L’ho detto che l’ironia è la nostra arma più potente e che dobbiamo basarci sullo spirito del nostro tempo, no? Ecco: il mio soggetto ideale sarebbe il mitico Scilipoti…».

Giovanni Vasso

Giovanni Vasso su Barbadillo.it

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