Prezzolini40annidopo. Nistri: “Il conservatore che insegnava a non berla”

Il ricordo del ruolo nella cultura italiana del novecento dell'intellettuale conservatore (e pessimista)

Il conservatore Giuseppe Prezzolini

Prof. Enrico Nistri, lei può essere considerato un esperto di Prezzolini, di cui ricorre il quarantesimo anniversario della morte.

“In realtà sono stato solo un suo attento e a suo tempo critico lettore”.

Però ha curato per la rivista “Lo Stato”, venticinque anni fa, l’inserto dedicato al pensatore.

“È vero. Marcello Veneziani mi aveva commissionato un ciclo di ritratti di grandi intellettuali del Novecento ed esordii proprio con quello. A proposito, tale collaborazione mi ha lasciato un ricordo negativo, l’altro molto bello”.

Cominciamo dal primo, per levarci il pensiero.

“Vede, avevo firmato un contratto in base a cui dovevo fornire ogni settimana sedici pagine, composte da un breve profilo del protagonista e da una raccolta antologica. All’epoca non c’era ancora l’uso di inviare testi per via telematica e spedivo tutto, introduzione e fotocopie dell’antologia, per fax. Credo che questo comportasse del lavoro in più alla redazione, ma non era colpa mia. Poco dopo seppi che la mia collaborazione era venuta meno, perché un giornalista di fama si era offerto di fare il mio lavoro fornendo il materiale già impaginato. Mi sarei potuto impuntare, visto che c’era un contratto, ma preferii sorvolare. Ho visto però in quel comportamento una grave scorrettezza fra colleghi professionisti. Avrei potuto giustificare tale offerta in un extracomunitario che per fame si offre di fare il doppio del lavoro di un italiano allo stesso prezzo; ma il collega che mi giocò quello scherzo non moriva di fame: aveva la pensione di giornalista, quella di parlamentare e di ex presidente del Senato. Non ne faccio il nome solo perché è morto e anche perché, per motivi “cimiteriali”, pare che portasse male… un carissimo amico lo chiamava “il cipressetto””.

In effetti “Lo Stato” chiuse poco dopo.

“E fu un peccato. Ma veniamo al ricordo piacevole. Prima che il Cipressetto prendesse il mio posto, ebbi modo di curare il fascicolo dedicato a Berto Ricci. E fu proprio quell’inserto a farmi conoscere a Michele De Feudis, dando il la a una lunga e mai interrotta amicizia. Non è poco”.

Da quanto ha detto, potrebbe sembrare una persona attaccata al denaro. Non è che la vicinanza a Prezzolini l’ha contagiata?

“Beh, le dirò che “Lo Stato” pagava bene, ma quello che mi dispiacque fu il fatto di non poter continuare quella collana di grandi del Novecento, su cui avevo già fatto molte ricerche, anche laboriose. Non è come oggi, che si fanno i copia incolla da Internet. Allora i libri bisognava cercarli in biblioteca, e le biblioteche italiane – come lamentava sempre Prezzolini, confrontandole con quelle statunitensi – considerano il lettore un emerito rompiscatole. Pensi che in tempi di lockdown le biblioteche pubbliche erano chiuse, mentre le librerie sono rimaste aperte.

Comunque, vorrei fare una precisazione. L’avarizia di Prezzolini aveva diverse radici, e anche varie giustificazioni. Intanto, riteneva giusto che il lavoro intellettuale fosse remunerato. Poter vivere della propria penna per un intellettuale è una garanzia di libertà: dalle mafie accademiche (a proposito: lo sa che fu proprio sulla “Voce” ad apparire per la prima volta l’espressione “baroni universitari”?), oggi dalle “marchette” della Rai o degli uffici stampa. Ce l’aveva, per esempio, con le interviste, che chiamava “articoli rubati”. Poi, c’era in lui l’inquietudine del rentier dinanzi all’erosione del suo patrimonio in seguito all’inflazione. Prezzolini era nato ricco, figlio di un prefetto, che morendo precocemente gli lasciò una buona rendita quando non aveva ancora vent’anni. Dopo la grande guerra, il suo patrimonio era stato azzerato dall’inflazione e anche dalle spese fatte per sostenere i suoi studi e le sue riviste. Poi, è giusto ricordare che apparteneva alla miglior categoria di avari, quelli tirchi con se stessi e prodighi con gli altri. Fu generoso di incoraggiamenti e di consigli, ma anche di denaro nei confronti dei familiari. Risparmiò per assicurare un patrimonio dopo la sua morte sia alla prima moglie che alla seconda”.

Peccato che morirono prima tutte e due…

“È vero, ma non fu colpa sua… Anzi quando morì l’ultima, che lui aveva soprannominato Pigia, tentò persino il suicidio”.

A cent’anni.

“Non è mai troppo tardi. C’è un suicidio degli anziani che non nasce come quello dei giovani da un eccessivo attaccamento all’esistenza e alle sue passioni, ma da una sorta di stanchezza di vivere. Pensi al caso di Monicelli, o del grande pittore e polemista Enrico Sacchetti”.

Prezzolini morì nel 1982, a Lugano. Scriveva per la “Gazzetta Ticinese”, un quotidiano cui collaborava anche lei. Ha mai avuto occasione di conoscerlo?

“Di persona, no. Avrei potuto tentare un contatto, ma mi sono sempre ricordato di una grande e amara frase di Flaubert: “Il ne faut pas toucher aux idoles: la dorure en reste aux mains””.

Non si studia più il francese in Italia. Potrebbe tradurre?

“Peccato, la cultura di Prezzolini era molto francofila. Comunque traduco: “Non bisogna mai toccare gli ideoli, c’è il rischio che ti rimanga in mano la doratura”. E poi a quell’epoca su Prezzolini avevo qualche riserva.

Vede, ero giovane, e avevo bisogno di certezze. Prezzolini invece insegnava a dubitare, a non “berla”. E, come mi disse una volta riferendosi a lui un carissimo amico che in questi giorni ne ha pubblicato un bellissimo ricordo su “Formiche”, “non c’è bisogno di maestri per dubitare”. In più non gli perdonai un articolo pubblicato sulla “Nazione” e, suppongo, anche sul “Resto del Carlino”, quando Paolo VI sacrificò il cardinal Mindszenty alla Ostpolitik di Casaroli. Prezzolini difese papa Montini in nome della ragion di Stato, pagando forse un debito di amicizia verso Sua Santità, che era stato in gioventù un suo attento lettore. Non mi piacque nemmeno il fatto che, pochi mesi prima di morire, si fosse recato al Quirinale, dove l’allora presidente Pertini gli consegnò un riconoscimento di poco valore, la Penna d’Oro (come minimo, avrebbe dovuto crearlo senatore a vita). Artefice dell’incontro fu Giovanni Spadolini; anche lui non mi rimaneva simpatico, mentre da molti anni ne ho almeno in parte rivalutato la figura, complice anche l’incoltura dell’odierna classe politica. Ma si sa, a vent’anni si è molto intransigenti, o stupidi. O tutte e due le cose insieme”.

E naturalmente ha rivalutato anche Prezzolini.

“Sì, purtroppo”.

Perché?

“Perché mi sono sempre più riconosciuto nel suo pessimismo e anche in un certo suo atteggiamento dinanzi alla fede. Vede, Prezzolini ha scritto che in un certo periodo cercò la conversione, sforzandosi di divenire cattolico, senza riuscire a essere cristiano. Ho molto riflettuto su quell’affermazione, che all’apparenza può sembrare un calembour. La grandezza del cattolicesimo è di avere sottomesso al rigore della sintassi latina il disordine del profetismo ebraico. Credo non sia un caso che il tramonto della Chiesa cattolica sia cominciato con l’eliminazione del latino dalla liturgia”.

Comunque Prezzolini non riuscì a convertirsi. Scrisse pure che quel tentativo di ritorno a Dio gli era stato suggerito dal Diavolo. E lei?

“Mi appello al quinto emendamento”.

Secondo lei, qual è stato il periodo più fecondo nel lungo percorso di Prezzolini?

“A costo di apparire banale, dirò i primi quindici anni del secolo scorso, ma lo stesso può dirsi per la letteratura italiana. Il Novecento è stato un enfant prodige, che non ha mantenuto le promesse, come capita spesso agli enfants prodige. I capolavori di Prezzolini sono stati “Il Leonardo” e “La Voce”. In quegli anni in certi momenti sfiorò il genio; dopo (e lui fu il primo ad accorgersene e a riconoscerlo, perché aveva una grande probità intellettuale) un onesto e spesso brillante artigiano della penna”.

Non della penna d’oro di Pertini.

“Ma mi faccia il piacere! E non mi fraintenda neppure. La maggior parte dei giornalisti di oggi rispetto a lui non avrebbero nemmeno le competenze di un correttore di bozze (e di fatti non esistono più i correttori di bozze, e si vedono i risultati), ma il Prezzolini magico e mistico, disvelatore di nuovi mondi, perì con la grande guerra, e anche con il suo gruzzoletto, con i suoi titoli di Stato liquefatti dall’inflazione. Perché altro è scrivere per intima necessità, altro è scrivere per vivere. Molti libri di Prezzolini sono quelle che lui chiamava “raccolte di articoli alimentari riuniti”. Il che non toglie che si leggano spesso con interesse e curiosità”.

Ma allora, a parte il periodo dello Sturm un Drang delle riviste, cosa rimane di Prezzolini?

“Io metterei in prima fila due opere, di indole disinteressata. La prima è la Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino, che poi è un’autobiografia dissimulata. La “cara e porca Italia” del Cinquecento è anche l’Italia transitata dal biennio rosso alla dittatura fascista e Machiavelli esiliato a Sant’Andrea in Percussina è Prezzolini rifugiatosi prima in Francia poi negli Stati Uniti, perché inviso sia ai palleschi (pardon, ai fascisti), sia ai repubblicani (pardon, gli antifascisti). L’altro è il suo diario, che scriveva per sé, non con l’intento di guadagnare, anche se poi lo pubblicò con Rusconi. Soprattutto il primo volume è un capolavoro, per finezza di analisi e spregiudicatezza di giudizio”.

Un esempio?

“Anche più d’uno. Per esempio, sul fascismo che si vantava delle dichiarazioni di Churchill, che aveva detto che se fosse stato italiano sarebbe stato fascista. Prezzolini obiettava che in quell’espressione c’era un sottile pregiudizio anti italiano. Churchill in realtà era contento di appartenere a una nazione che contava le teste invece di spaccarsele. Ammirava il fascismo perché disprezzava gli italiani.  O quando, a proposito di Croce che criticava il fascismo, lo paragonava a un padre che dopo aver regalato ai figli spade di latta, trombette, cannoncini, si sente disturbato dal rumore”.

A proposito di fascismo, Prezzolini fu fascista o no? Ogni tanto esce qualche polemica sul suo coinvolgimento con Mussolini.

Prezzolini non fu fascista: fu “solo” l’inventore di Mussolini, ai tempi della campagna interventista e anche prima. Fu lui a scoprire il duce, non Mussolini a fascistizzare PrMussolini. Era antisocialista e nazionalista, ma a modo suo (non avrebbe voluto che la Dalmazia passasse all’Italia; Fiume sì).

Nonostante questo, Salvemini l’accusò di essere una quinta colonna fascista alla Columbia University. E dire che si era trasferito proprio negli Stati Uniti, a insegnare, lui che non aveva nemmeno la licenza liceale, per mantenere le distanze da Roma e da Mussolini. La prova che non era una spia fascista sta anche nel fatto che dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Usa non gli fu revocata la cittadinanza statunitense e poté  continuare a fare il professore alla Columbia University. Come spesso succede quando si cerca di non credere alle opposte vulgate, si finisce per essere invisi agli uni e agli altri, un po’ come succede in questi giorni“.

E Il manifesto dei conservatori?

“Quando uscì, con una prima anticipazione sulla rivista “La Destra”, noi giovani cresciuti a pane ed Evola lo snobbammo, con l’arroganza dei vent’anni. L’ho riletto e vi ho scorto molti spunti intelligenti e utili a una destra che voglia darsi una collocazione ideologica distante dalle paludi del neoantifascismo e del neofascismo”.

Quindi, Prezzolini non fu fascista, ne è sicuro?

“Vi fu un momento, negli anni Trenta, in pieni anni del consenso, in cui forse sarebbe tornato anche in Italia, disgustato dalla campagna mossa contro di lui da Salvemini. Come si espresse in una lettera a Papini, si sarebbe accontentato anche solo di un posto di provveditore agli studi, lui che come minimo avrebbe meritato un seggio nell’Accademia d’Italia. Ma il regime non gli concesse nemmeno quello: non lo considerava controllabile. Forse Mussolini si sentiva imbarazzato dalla presenza in Italia di una persona che l’aveva fatto crescere intellettualmente e con cui si dava del tu”.

Vecchio vizio del fascismo…

“E anche del neofascismo, e del post-fascismo. Comunque fu un bene, a conti fatti. Anche la stupidità può recare vantaggi. Per il resto, Prezzolini non fu fascista, e nemmeno antifascista. Visto che collaborava al “Borghese” di Leo Longanesi, qualcuno potrebbe dire che al massimo era un “leofascista””.

So che la domanda è un po’ abusata, però mi piace lo stesso farla. Se fosse vivo oggi, che atteggiamento crede terrebbe l’anarco-conservatore Prezzolini  (la definizione è del suo biografo Gennaro Sangiuliano) nei confronti delle politiche di contrasto alla pandemia e della guerra in Ucraina?

“Più che abusata, mi sembra assurda. Rispetto a quel lontano 1982, sono successe molte cose, prima in meglio, poi decisamente in peggio. Comunque, se prevalesse l’anarchico credo che si rifiuterebbe di mettere la mascherina e di farsi inoculare un siero di dubbia efficacia. Se prevalesse il conservatore anticomunista – quale egli sempre fu – non nutrirebbe certo simpatie per un ex tenente colonnello del Kgb, ma non accetterebbe acriticamente le veline della propaganda, come si rifiutava di fare ai tempi della grande guerra. Perché, come scrisse in una celebre lettera a Gobetti uscita sulla “Rivoluzione liberale”, Prezzolini fu prima di tutto un apota, uno che si rifiutava di berla. E di apoti come lui l’Italia avrebbe decisamente bisogno”.

@barbadilloit

Antonio Fiore

Antonio Fiore su Barbadillo.it

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