Ucraina, le radici del conflitto che infiamma l’Europa

“Ucraina 2022. La storia in pericolo”, è il saggio - recentemente edito dalla casa editrice La Vela - dello storico Franco Cardini e dell’analista militare Fabio Mini

Ucraina 2022

I circuiti mass mediatici veicolano ormai da mesi un’informazione monocorde e martellante, che amplifica un clima da “caccia alle streghe” – se non ci trovassimo nel mezzo di una tragedia si potrebbero definire grottesche, specialmente nel caso italiano, le modalità con le quali un’ondata di diffidenza e rancore ha travolto i simboli della cultura russa con attacchi sistematici, se non con la rimozione tout court – particolarmente insidioso per chi volesse approfondire le cause della guerra in Ucraina, andando oltre le ragioni della parte aggredita il 24 febbraio 2022. 

Queste ultime vengono metodicamente evidenziate per ottenere la condanna dell’”orso” invasore e l’indignazione della comunità internazionale, trovando una sponda formidabile nelle narrazioni, provenienti da vari ambienti e accreditate dall’establishment, di coloro i quali rivendicano come se fosse un vanto muovere guerra alla complessità, anteponendo al buon senso prima che al ragionamento la scelta di campo per i valori – piuttosto vaghi, aldilà di una massiccia dose di individualismo e edonismo – delle liberal-democrazie occidentali.

Offre validi spunti di riflessione e di critica, in contro-tendenza rispetto alla vulgata generale, “Ucraina – La guerra e la storia” che fa leva sui contributi – estratti dal saggio miscellaneo “Ucraina 2022. La storia in pericolo”, recentemente edito dalla casa editrice La Vela – dello storico Franco Cardini e dell’analista militare Fabio Mini, ex comandante delle operazioni di pace a guida Nato in Kosovo nella missione KFOR.

“Questa è l’ora alla quale è giunta la nostra notte”

La decisione di Putin di attaccare potrebbe essere non solo il frutto di un errore di calcolo dei suoi consiglieri militari e di un azzardo – l’illusione di una spedizione rapida e vincente e l’esortazione, poi rientrata, agli alti ufficiali ucraini di destituire Zelensky e trattare direttamente la pace – ma è forse in parte riconducibile a quella che l’accademico fiorentino rievoca come la trappola di Tucidide, cioè il meccanismo azionato da una potenza angosciata dalla minaccia della decadenza e convinta di poterla arrestare assalendone un’altra, subordinata e periferica, alle spalle della quale si profilano, nel caso di specie, gli Stati Uniti come metafora della potente Sparta. 

In uno scenario simile la scelta dell’ex funzionario del KGB sarebbe stata “obbligata”, perché cronologicamente collocata tra un ulteriore avvicinamento tra Ucraina e Unione Europea che avrebbe da una parte saldato ancor più la prima alla Nato, dall’altro inasprito a tal punto i malumori e le recriminazioni nei suoi confronti da causarne il rovesciamento per lo smacco ricevuto. Se non è escludibile a priori l’ipotesi opposta, che assegna alla potenza a stelle e strisce il ruolo dell’aggressore e prefigura l’irrompere sulla ribollente scena internazionale della Cina come terzo incomodo, i capisaldi di partenza dell’analisi sono due.

Il primo è che Zelensky, affascinato da un’immagine effimera di libertà e opulenza ma sostanzialmente estraneo – al pari dell’avversario – alla forma mentis degli occidentali, fatica a comprendere che essi sono disposti a sostenerlo ad oltranza dal punto di vista economico (non facendo peraltro mistero – aggiunge sommessamente non solo chi scrive – di voler ritagliarsi un ruolo di primo piano quando arriverà l’ora del business della ricostruzione), ad armarlo fino ai denti, ad inviare addestratori e consiglieri militari, a rinnovare sanzioni che si ripercuotono a danno degli europei e non degli Stati Uniti, ma non certo “a morire per Kiev”.

In base al secondo Biden agita lo spauracchio del mantenimento nell’area della linea dura, utilizzando a proprio piacimento gli enormi strumenti militari di cui dispone e incarnando alla perfezione lo spirito messianico che permea da sempre le amministrazioni a guida democratica, cioè quella fede nel manifesto destino della nazione americana che ne rinvigorisce di continuo il ruolo di “gendarme planetario”. La sensazione di Cardini è che, una volta fallito il disegno scellerato dei neoconservatori di affermare l’unilateralismo statunitense, Washington abbia giocato la carta del diversivo della “guerra umanitaria” a tutela della libertà e della democrazia di un popolo aggredito da un crudele dittatore, nell’intento di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da gravi problemi di ordine interno (quali il debito pubblico e l’impoverimento socioculturale) e riuscendo, grazie alla spiccata imperizia e faciloneria che da sempre li contraddistingue, a compattare il fronte dei propri nemici.

In Ucraina è in corso una guerra per procura, iniziata nel 2014 con il colpo di mano del rovesciamento dell’esecutivo filorusso di Janukovic (nel solco della rivoluzione “arancione” del decennio precedente, non meno ambigua della sommossa “rosa” avvenuta in Georgia), proseguita con l’intensificazione della repressione nelle repubbliche separatiste del Donbass – dichiaratesi favorevoli, insieme alla Crimea, all’annessione alla Federazione Russa dopo lo svolgimento di consultazioni referendarie –  e i crimini perpetrati a danno della popolazione civile di lingua russa da parte del Battaglione Azov, immediatamente integrato nella Guardia Nazionale. 

La sistematica violazione dei protocolli di Minsk, l’accelerazione degli accordi di adesione con l’Unione Europea e l’allargamento ad est della Nato – in palese contraddizione con impegni formalmente non cogenti ma più volte rinnovati in varie sedi dal 1991 in avanti e nonostante i numerosi appelli dei governi russi, che fino al dicembre scorso invitavano i propri interlocutori atlantici a desistere dal minacciare la sicurezza di Mosca nel silenzio dei media occidentali – sono fenomeni complementari al deciso rafforzamento del nazionalismo ucraino che si è avvicinato a grandi passi, per uno scherzo della storia in controtendenza rispetto alle proprie caratteristiche originarie, ad un antico nemico come la Polonia, nel quadro dello spostamento verso est del nuovo blocco euro-atlantista.

Non costituisce eccezione al furore guerrafondaio di chi addita al solo Putin le responsabilità della crisi l’atteggiamento della classe dirigente italiana, pronta a piegarsi in modo servile ad un atto formale di guerra attraverso il voto parlamentare favorevole all’invio di armi agli aggrediti “più recenti”, ad unirsi al coro di chi invoca la Corte Penale Internazionale dell’Aja per fermare i crimini russi, a dimenticare le aggressioni consumate dagli Usa e dalla Nato contro Stati sovrani – dall’Iraq, all’Afghanistan, alla Serbia e via elencando – rimaste impunite, in macroscopica violazione della Carta dell’ONU e del diritto internazionale.

La guerra di Gerasimov

Dal punto di vista militare il conflitto si configura tra il 2014 e il febbraio 2022 come guerra regionale di bassa intensità che ha provocato, stando alle stime più attendibili, circa quattordicimila vittime tra militari e civili. Pur aprendo scenari difficilmente prevedibili e pericolosi soprattutto per i paesi europei, lo sciagurato intervento russo non mira all’occupazione di tutto il territorio avverso ma alla messa in sicurezza delle repubbliche del Donbass, al controllo della fascia di collegamento alla Crimea (anche nell’ottica di garantire gli accordi relativi alla flotta del Mar Nero) e ad esercitare pressioni a fini strategici, attraverso operazioni tra loro relativamente indipendenti: basti pensare, con riferimento all’accerchiamento – per fortuna, non alla distruzione – di Kiev, all’iniziale volontà d’insediarvi un esecutivo favorevole alla neutralità e alla resa dell’esercito.

Nell’analisi di Mini la guerra ibrida del capo di stato maggiore generale Gerasimov, contraddistinta da azioni asimmetriche che possono rovesciare i rapporti di forza tra i contendenti (come le campagne di disinformazione o l’uso della forza limitato ma determinato), si sovrappone ad altre categorie conflittuali, non sempre note alle platee più vaste: quella demografica, in cui si argomenta – dati alla mano – che Russia e Ucraina non sono assolutamente in grado di sostenere nel lungo periodo un elevato numero di perdite umane; quella dell’informazione, in cui si evidenzia che misure legislative europee (come il Regolamento 350/22 in materia di misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina) colpiscono la circolazione di notizie da parte di organi d’informazione russi impegnati in attività di propaganda ed i loro fruitori, preoccupandosi della parzialità altrui…ma non ponendo limiti alla propria; quella della censura digitale, concretizzatasi nel divieto delle attività di radiodiffusione nell’Unione Europea per le televisioni russe Sputnik e Russia Today. 

L’analista militare cinese Qiao Liang ha sostenuto che gli Stati Uniti, impegnati ad ostacolare l’Europa nell’acquisizione di capacità di difesa autonoma sin dalla fine dell’URSS, cercano di scongiurare il declino del proprio impero finanziario costringendo il Vecchio continente a tagliare i rapporti politici ed economici con la Russia e con la Cina. 

Si può, in conclusione, convenire con gli autori quando inseriscono un conflitto riguardante un paese membro non de iure ma de facto della Nato (risale al 2004 la partecipazione di contingenti ucraini alle operazioni dell’alleanza militare in Iraq, Afghanistan e Kosovo) e un probabile rischio nucleare generalizzato nel mosaico della complessiva ridefinizione dei rapporti e delle relazioni internazionali, che dipenderà inevitabilmente da parecchi altri fattori, a partire dalle sorti del progetto – ideato dalla Cina e dai paesi dell’Unione Economica Eurasiatica, fondata tra gli altri nel 2015 da Russia, Bielorussia e Kazakistan – relativo all’istituzione di un meccanismo monetario e finanziario indipendente, che aspira a candidarsi come seria alternativa a quello incentrato sul dollaro statunitense.

Andrea Scarano

Andrea Scarano su Barbadillo.it

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