Graziano Piazza ovvero un derviscio di nome Tiresia

Intervista all’attore Graziano Piazza che è Tiresia in “Edipo re” di Robert Carsen al Teatro Greco di Siracusa. Il mestiere, i sogni e le certezze di un artista a tutto tondo

 

Graziano Piazza è Tiresia- Foto di Maria Pia Ballarino

Il momento più vibrante della sua interpretazione di Tiresia è quando si accampa al centro della scena davanti ai resti del lutto di Tebe e, invasato dal dio, pronuncia l’oracolo per Edipo. Quattro minuti di climax dentro la sua apparizione in cui avviene quello che Holderin disse a proposito di Tiresia “una cesura metrica”.

Così Graziano Piazza in quei quattro minuti arde come il Tiresia di Thomas Eliot in The Wast Land o forse come nessun altro. Perché, di certo, il suo Tiresia è di una indiscutibile originalità “Nel momento del vaticinio la parola si forma prima del pensiero. Immagino nella mia cecità, un magma di tutte le parole. Ecco il ritmo”. Dice e sembra di rivederlo in quell’accenno di danza davanti alla scalinata di Edipo re di  Robert Carsen, quando fa sinestesia dell’indovino cieco. Solo che ci troviamo nell’isolotto di Ortigia dentro la sua casa, dalla cui teoria verticale di terrazzi si vedono i tetti di Siracusa come se si volasse a cavallo di un drone. Magari non è un caso che il suo Tiresia sia recitato tutto in verticale. Verticale e danzante.

Graziano Piazza, quest’anno, festeggia quarant’anni di carriera. Attore naturale, Piazza è al liceo, quando Ugo Gregoretti lo fa debuttare insieme a Vittorio Gassman in uno sceneggiato televisivo. Segue un ricchissimo bagaglio di esperienze fatte con grandi registi: Peter Stein e Luca Ronconi su tutti, ma anche Daniele Salvo, Federico Tiezzi, Glauco Mauri e  Piero Maccarinelli. Con Ronconi fa quell’enorme esperimento teatrale che è stato “Infinities”, mentre Maccarinelli lo porta a Siracusa nel 2000 con “Oreste” e Stein a Epidauro con “Pentesilea” (nel ruolo di Achille). E’ il suo quarto anno nel Teatro Greco di Siracusa, dopo “Coefore Eumenidi” di Daniele Salvo e “Le Troiane” di Muriel Mayette Holtz in cui è Menelao. Qui ha avuto accanto Viola Graziosi, sua compagna di vita e di teatro e per la quale ha scritto intense regie, tra tutte “Aiace” di Ghiannis Ritsos, “The Handmaid’s Tale” di Margareth Atwood, “Elena tradita” di Luca Cedrola e “L’intervista”, adattamento teatrale del film di Theo Van Gogh.

Nel suo carnet di attore, Piazza ha spaziato da Shakespeare a Brecht, da Cechov a Manzoni e Dante fino a Ibsen ed Ezra Pound.  Anzi, quando gli faccio notare che avrebbe la voce e l’aspetto per far rivivere le poesie di Pound, lui confessa che per Tiresia si è rifatto ai versi di Eliot dedicati al poeta americano e comincia a recitare “Io Tiresia, benché cieco, con femminee mammelle raggrinzite nell’ora di viola, nell’ora che al navigante suscita disio del porto e alla ragazza un po’ invecchiata voglia di asilo, nella casa trasandata ai piatti sporchi già dalla mattina, ai panni stesi ad asciugare alla aspettata visita serale dell’effimero amico e io Tiresia io cieco, già tutto avevo visto di quel che si è consumato su  quel divano letto”. Recita con gravità e leggiadria assieme, mentre tra le dita la sigaretta si consuma e non so perché sembra che nessun altro possa, d’ora in poi, fare Tiresia.

Cosa è rimasto di Tiresia in Graziano Piazza, oltre la barba e i capelli?

“Anche se sembra un po’ paradossale, di Tiresia mi è rimasto il suo sguardo. Per cogliere il suono delle rondini, degli uccelli come Tiresia stesso dice. Il mio non é un personaggio romantico come è capitato a volte in passato; io ho cercato di coglierne l’enigma. Questo Tiresia, essendo un uomo di strada, mi porta a guardare alla vita in maniera differente, cercando di vedere con occhi più vicini alle cose e sotto certi aspetti più compassionevoli”.

Mi è sembrato che, al netto dell’originalità, l’interpretazione rievochi Tiresia di Pasolini ossia il suonatore di flauto…

“C’è certamente qualcosa di Julian Bech (interprete del film di Pasolini n.d.r) nel perdersi, nell’essere parlato da dio. Poi c’è quella che Anouilh chiamava “possessione teatrale”, per cui dal personaggio in poi non so cosa a me attore possa accadere. In “Edipo re” di Carsen abbiamo deciso che io sia realmente cieco, nel senso che non vedo nulla grazie alle lenti a contatto bianche. Una dose di pericolo e di instabilità: dove sono, cosa faccio lì sposta un po’ l’attenzione dal dover recitare. C’è una traccia di realtà e di ricerca di verità, ma non fino al naturalismo. Una traccia di verità è, anche, non vedere il pubblico. La meraviglia di quasi cinquemila persone, la vedo solo al momento degli applausi. Vivo in un certo senso nel mio mondo e non ho occhi concreti per vedere: intravedo la possibilità di ciò che devo comunicare attraverso la parola del dio”.

L’attore che si acceca rompe la linea d’ombra tra persona e personaggio, la messinscena anche di Tiresia è nel segno dell’antilirismo né il testo racconta tutto il mito dell’indovino. Allora, perché non fino al naturalismo?

“Non è  naturalismo nel senso che si avverte che c’è qualcosa che va oltre. Quando assumo questa voce del vaticinio finale e ogni giorno cambia, è come se facessi un salto, un volo senza sapere dove arriverò. Essere posseduto dal dio è la chiave per capire il Tiresia di Sofocle. E’ un uomo qualunque che sa di avere questo dono ma non sa come il dio lo userà”.

Tiresia danza e i movimenti rimandano ai dervisci. Cercando nella tua biografia, c’è l’incontro con il sufismo. Quanto ha influito il pensiero sufi nel tuo lavoro di attore?

“Molto. Questa è una domanda molto intima ma coglie un aspetto di verità. I dervisci sono cercatori di verità e Tiresia vive di verità. Il derviscio è un uomo di strada, bislacco, un folle di dio, come questo Tiresia vagabondo.  Quando ho proposto a Carsen la mia versione di Tiresia, lui ci ha pensato su e poi ha recitato versi di Rumi che io conoscevo. A quel punto tutto è stato facile. Tiresia nasce da questo ambito comune di ricerca. Per quanto mi riguarda, la ricerca della verità attraverso la pratica sufi è pratica non tanto religiosa ma di vita e di armonia. Vivere la vita con leggerezza ma nella saggezza della semplicità. E poi ho avuto l’onore di stare insieme ai dervisci nella cerimonia del Semà e girare insieme a loro e recitare le poesie di Rumi!”.

A proposito di leggerezza: la scultura è la tua seconda espressione artistica. Influisce nel tuo lavoro di attore?

“Ho iniziato a scolpire il ferro, il rame e l’ottone, perché avevo visto, quando ero al liceo, una mostra di Alexander Calder. E rimasi affascinato dal modo in cui riusciva a creare forme con un filo di rame. Ho provato a farlo a casa e mi riusciva facile. All’epoca seguivo a Torino Marcel Marceau. Avevo un corpo molto attivo e, secondo lui, ero adatto a questo tipo di performance. Ho trovato nella scultura la stessa ricerca del movimento nelle linee, che creano una tridimensionalità.  Ho creato per me un mondo artistico in cui compongo non la forma ma l’essenza del movimento che contiene questa forma. E’ come disegnare nell’aria, e la linea rimane scolpita nell’aria. Alla Biennale degli Artisti di Bologna, gli altri artisti battezzarono la mia mostra “I vuoti di Graziano Piazza”.

Eve, scultura di Graziano Piazza- Foto di Luca Alcini

I tuoi personaggi hanno una connotazione contemporanea, anche quando appartengono al mito o al passato. Tiresia è il tuo ruolo più forte?

“Di sicuro per il lavoro sul linguaggio. All’inizio Carsen mi ha detto di trovare un linguaggio, una lingua straniera non assimilata. E io ho lavorato sul suono delle parole non tanto sulla loro comprensione, aiutandomi con le antitesi del testo: le ho fatte fluire al di là del mio pensiero, in uno spazio diverso dalla normale comunicazione. Uno spazio preesistente: si può dire? Tiresia condivide, però, l’intensità con Re Lear che ho fatto al Globe Theatre nel 2013 per la regia di Daniele Salvo. Al Globe tornerò in autunno con Macbeth”.

Speri quest’anno in un premio per Tiresia?

“Diciamo che sono contento del riscontro del pubblico e della critica che ha scritto così bene di Tiresia. Al tempo per Oreste avevo ricevuto una menzione collegata al Premio Vittorini. Ora dopo ventidue anni ho avuto l’occasione di donare qualcosa a questa terra che mi appartiene. I miei genitori sono di Niscemi: sono siciliano di sangue, anche se nato a Domodossola e vissuto a Torino. Quando torno in Sicilia, torno a casa e per me sarebbe bellissimo avere un riconoscimento. Quest’anno c’è un altissimo livello attorale, chiunque meriterebbe un premio. Certo che un personaggio come Tiresia che in quindici minuti deve riuscire a incidere la scena è diverso da un personaggio che ha più spazio.  Un premio: perché no? In questo momento sarebbe un premio per mia madre che è appena mancata”.

Il teatro è anche le regie che curi. I tuoi spettacoli da regista, la maggior parte con Viola Graziosi, sono minimali: pochi attori, a volte solo uno, scenografia essenziale, molto testo. Graziano Piazza soprattutto attore o regista?

“Attore. La regia per me è talmente grande che non mi voglio dire regista. I registi hanno una visione più complessa mentre io riporto nelle mie regie la pratica dell’attore. Quando lavoro, con Viola o con altri attori o con i miei stessi studenti, offro strumenti quali la sensibilità attorale rispetto al testo e una visone. Se mi confronto con i registi con chi ho lavorato, una mia regia più strutturata diventa un progetto avanti nel tempo”.

Teatro politico o teatro sacro?

“Il teatro vero nel momento in cui è politico diventa sacro e viceversa. Per me la distinzione è solo dal punto di vista in cui lo guardi. Autori come Brecht che hanno scritto di teatro politico, se li guardi bene all’interno esprimono un fortissimo senso di sacralità dell’uomo. Io adoro Ritsos: contiene in sé l’epifania della parola”.

Non chiedo dei registi con cui hai lavorato perché sono talmente grandi che potresti dirmi solo cose belle. Invece, a proposito di testi, qual è l’autore che è più adatto a Graziano Piazza attore e regista?

“Shakespeare. Ho già fatto una regia da Shakespeare “Misura per misura” che per me è stata una bellissima esperienza e ho avuto l’onore di farla con Antonio Calbi e per questo gli sarò sempre grato. Il lavoro è stato stimolante: abbiamo cercato, parola per parola, la radice dall’inglese in maniera tale da creare un magma creativo e una ritmica di blanck verse ma in italiano. Anche Goethe: ho fatto un monologo di quasi due ore in Faust.  Shakespeare e Goethe contengono in sé la meraviglia e la terribilità del tutto. Nei loro testi non c’é una parola che va in senso unico ma una parola che sempre si apre, che ci pone sempre di fronte alla domanda: perché siamo qui?”.

Epidauro, Segesta e Siracusa: cosa ha di particolare recitare in un teatro di pietra?

“Un modo differente di vivere ciò che hai potuto vedere come spettatore. Gli attori sanno di essere circondati e abbracciati da tutti gli sguardi. Io so, soprattutto, di essere molto piccolo. Il fatto di poter essere piccolo di fronte a questa immensità ti riconnette con l’idea stessa per cui il teatro è stato creato”.

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Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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