Negli ultimi anni il populismo è tornato a essere fenomeno politico di stringente attualità, meglio, è stato al centro del dibattito politologico. Movimenti populisti o nazional-populisti sono sorti ovunque, in Europa e nel mondo. Alcuni commentatori hanno visto nell’elezione di Trump e negli eventi successivi alla discussa vittoria di Biden, la conferma, allo stesso tempo, dell’ampio consenso popolare che la globalizzazione ha concesso a tali movimenti e della loro pericolosità per la democrazia. Se c’è un paese d’elezione del populismo, è sicuramente da individuarsi negli Stati Uniti. Lo ricorda lo storico americano Avery Craven, in una pubblicazione di recente comparsa nel catalogo della Oaks editrice, Storia populista degli U.S.A. Da Jefferson a Bryan, con introduzione di Luca Gallesi (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 183, euro 18,00). Craven, deceduto nel 1980, fu docente presso la Chicago University. Nelle sue ricerche si è occupato, in modo prevalente, della guerra civile americana, analizzata con gli occhi di un uomo del Sud.
Dalla lettura del libro si evince che il populismo americano è stato un fenomeno di protesta che coinvolse, soprattutto, i ceti sociali produttivi, in particolare gli agrari, e che ha, come sottolinea Gallesi: «infiammato la politica statunitense nella seconda metà dell’Ottocento» (p. I), mentre, nel corso del secolo XX, si è riaffacciato più volte sulla scena apolitica. Populisti furono, due secoli fa, quegli americani che vedevano nelle istituzioni repubblicane e presidenziali una difesa nei confronti delle lobbies industriali e finanziarie. Ricorda l’autore, in questo denso e accattivante prospetto storico, che a muovere dagli anni immediatamente successivi all’evento rivoluzionario, fu Thomas Jefferson a valorizzare la figura del produttore, del contadino: «legato alla propria terra e alla propria famiglia, contrapposto al proletario senza radici, vittima del cosmopolitismo elitario difeso da Alexander Hamilton, creatore della prima banca centrale» (p. I). L’intero sviluppo della storia statunitense è stato connotato dalla contrapposizione che, in alcuni contesti è divenuta particolarmente accesa, tra tutori del popolo lavoratore e paladini dell’élite plutocratica. Contrapposizione che, spesso, ha assunto i toni polemici di un confronto tra città e campagna, tra urbanesimo e vita rurale.
Nel secolo XIX, suggerisce Craven, l’idea populista si incarnò nelle politiche dei presidenti Jackson e Lincoln, che riuscirono, durante il loro mandato, a realizzare, almeno in parte, un programma di tutela del lavoro. Sostanzialmente, nelle diverse fasi storiche, i populisti hanno messo in campo una risposta all’alienazione sociale prodotta dall’esasperato industrialismo, senza mai aderire per questo, al modello marxista della lotta di classe. Furono espressione della tradizione nazionale, che i grandi gruppi bancari e finanziari tentavano di sovvertire. In alcuni casi, gli ideali populisti furono recuperati dai movimenti pacifisti, che avrebbero voluto evitare la partecipazione degli U.S.A. ai due conflitti mondiali. Agli esordi del XX secolo, toccò al Presidente mancato Jennigs Bryan riproporre, in una società che viveva profonde e drammatiche trasformazioni, le medesime idee. Questi, non casualmente, è passato alla storia con l’epiteto di “statista cristiano”: «Era un uomo “medio” ed assolutamente americano» (p. 149). I suoi antenati erano stati pionieri che avevano vissuto virtuosamente. Non poteva vantare, nell’albero genealogico, avi ricchi, ma sicuramente molti uomini onesti.
Bryan era animato da fervente spirito religioso: «Tollerava tutti i credi, ma non ammetteva che si potesse vivere senza fede» (p. 151). Studiò legge a Chicago. Suo maestro fu un vecchio sodale di Lincoln. Conseguita la laurea, si trasferì nel Nebraska ed entrò in politica. Nelle battaglie congressuali, fece di Jefferson e del suo programma, una guida sicura nella difesa degli interessi popolari. Si batté contro l’indebitamento dei contadini, che riteneva essere il ceto-perno della vita dello Stato. Nel 1895, anno fatidico durante il quale i trusts industriali si unirono a danno dei produttori, fondò un movimento che spronava alla ribellione contro i nuovi padroni. La sua abilità oratoria gli valse la candidatura, per il partito Democratico, alle presidenziali del 1896: «Egli era il capo di tutta l’amara rivolta degli uomini umili contro la nuova America industriale e i suoi capitalisti» (p. 153). Rispetto alla questione monetaria, le sue posizioni erano chiare: l’emissione del denaro era questione di spettanza governativa e le banche avrebbero dovuto rimanere estranee agli affari che riguardavano le istituzioni: «L’emissione di denaro non era che un tragico simbolo: bisognava ritornare all’onestà della vecchia America» (p. 156).
La sua proposta politica era una sintesi di principi cristiani e idea democratica. A ridosso dello svolgimento delle elezioni fu attaccato duramente, fu montata una campagna di stampa contro di lui, cui prese parte anche la chiesa battista. In ogni caso, Bryan fece dell’argento il simbolo della sua parte politica, mentre l’oro ben rappresentava l’ideale dei suoi avversari. Fu, naturalmente, sconfitto. Il mondo stava cambiando e gli U.S.A. stavano divenendo una potenza imperiale guidata dal ceto finanziario-militare. Le idee di Bryan continuarono, però, a circolare come linfa vitale nella società statunitense. Chiosa Gallesi, e noi con lui: «Di fronte all’inarrestabile offensiva della cancel culture, che ha espunto il populismo dalla storia americana […] questo scorrevole saggio può […] ricordare che le radici democratiche degli Stati Uniti affondano in una tradizione che […] possiamo a ragione definire populista» (p. III).
Le democrazie con velleità imperiali sono tutte populiste!